Nelle ultime ventiquattro ore ho polverizzato ogni mio precedente record in termini di rotture e cedimenti meccanici dell’auto: distrutti due copertoni, divelta coppia di tubi idraulici dei freni posteriori, rotta la serratura porta lato auto autista (purtroppo in posizione aperta, quindi con la portiera spalancata) e, infine, un improvviso consumo di carburante che in pochi chilometri ha prosciugato l’intero serbatoio. Per questa serie di guasti (riparati quasi unicamente con fil di ferro, nastro americano e coltellino multiuso) difficile da accettare e che dubito verrà mai eguagliata, mi trovo ancora a guidare nel pieno della notte sulla celeberrima Ruta 40 (La National Route 40 è una rotta nell’Argentina occidentale che corre parallela alle Ande, N.d.R.), circondato da una spaventosa tormenta di neve e ghiaccio. La spia della riserva, accesa ormai da una decina di minuti, mi induce a immaginare a una nottata rannicchiato sul sedile posteriore dell’auto e avvolto nel mio sacco a pelo. Intanto procedo a velocità moderata, così da contenere il consumo di carburante nella speranza di raggiungere Tres Lagos, il primo paese che prevedo di incontrare sul mio cammino. Finalmente appare il lampione che illumina il cartello di “TRES LAGOS”.
Mi rilasso e inizio ad aggirarmi tra le vie del paese in cerca di un hotel (o di qualcosa di simile), ma l’unico edificio che presenta segni di vita sembra essere la caserma della polizia. Solo dopo aver setacciato ogni singola strada decido di tornare verso la caserma. Suono il campanello sul portoncino e aspetto, mentre intanto il cappuccio del mio giaccone inizia a ricoprirsi di una coltre sempre più spessa di neve.
Dopo qualche minuto si presenta un giovane militare che mi fa segno di entrare per poi chiedermi cosa sia successo, visto che mi presento all’una di notte. Gli spiego che sono appena arrivato a causa dei tanti problemi avuti col mezzo e che sto cercando un posto dove dormire. Mi risponde che a quell’ora non è facile trovare qualcuno disposto ad ospitarmi. Gli chiedo se non ha una branda libera in una delle celle, aggiungendo sogghignando che sarei anche disposto a fare un piccolo crimine pur di non restare chiuso in auto tutta la notte. Nonostante l’ora e la scarsa voglia di scherzare il militare sorride e dice che forse è una soluzione un po’ estrema viste le circostanze.
Solleva quindi la cornetta del telefono e facendo scorrere le pagine della sua agenda inizia a svegliare uno a uno gli abitanti di Tres Lagos. Dopo aver collezionato una decina di inesorabili “no, lo siento” (“no, mi dispiace”), riesce ad ottenere una risposta positiva.
Mi indica quindi la strada per raggiungere la famiglia che mi ospiterà e mi saluta augurandomi miglior fortuna per i giorni a venire. Non fatico a trovare l’abitazione indicata, in quanto risulta essere l’unica con le luci accese. Scarico i bagagli ed entro.
Ad accogliermi trovo una giovane coppia con due bambini che sembrano essere divertiti dalla mia presenza. La donna mi avvisa che la camera al piano superiore è quasi pronta e che ha preparato una tazza di minestrone fumante. Resto senza parole, poi ringrazio e la seguo verso la cucina mentre i bimbi tornano a dormire. Terminato il minestrone raggiungo la camera da letto dove in pochi istanti provo quel piacere sublime ed ormai insperato di sentirmi avvolto da lenzuola pulite e riscaldato da morbide coperte di lana.
Mi sveglio di soprassalto poco dopo l’alba travolto da un pensiero che mi mette agitazione. Avendo accumulato due giorni di ritardo sul programma e non potendo rimandare la data d’imbarco che mi farà tornare a nord navigando lungo i fiordi cileni, mi resta una sola mattina per vedere e fotografare una delle meraviglie più famose della Patagonia: il ghiacciaio Perito Moreno.
Mi avvicino alla finestra e guardo cadere la neve sulle strade che durante la notte si sono trasformate in tumultuosi fiumi di fango, un habitat poco apprezzato dai copertoni “cittadini “e piuttosto consumati della mia piccola Renault Clio. Mi vesto e scendo in cucina dove trovo la colazione pronta. Mangio un paio di fette di pane con la marmellata e una tazza di latte caldo. Mi raggiunge il padrone di casa che avendo notato il mio atteggiamento frettoloso mi chiede per quale ragione sembro tanto preoccupato.
Dopo aver ascoltato le ragioni per le quali devo raggiungere in serata El Calafate (la cittadina più prossima al Perito Moreno) mi dice con calma imperturbabile che con le strade in quelle condizioni non posso fare altro che tornare a dormire e aspettare che il vento della Patagonia asciughi il fango. Gli rispondo che non è possibile e che devo partire immediatamente. Non aggiunge altro, nemmeno quello sguardo di dissenso che mi sarei aspettato, come se non prendesse nemmeno in considerazione le mie parole.
Pago, gli stringo la mando, salto in auto e mi dirigo verso l’unico distributore del paese. Dopo aver riempito il serbatoio il benzinaio mi chiede dove sono diretto. Rispondo che devo andare a El Calafate. Anche lui mi conferma che la strada oggi non è praticabile, che non esistono vie alternative e che quindi non mi resta che trascorrere un’altra notte in città. Potrò ripartire solo quando il vento avrà asciugato il cammino. Intanto il cielo inizia ad aprirsi e la neve a diventare pioggia.
Saluto il benzinaio e imbocco caparbiamente la strada per El Calafate. Percorsi alcuni chilometri, con l’auto che sbanda in ogni direzione, trovo di fronte a me un fuoristrada che blocca il passaggio in corrispondenza di un evidente cambio di fondo stradale. Quello che per i primi chilometri si è presentato come fango compatto di colore marrone chiaro, ora si trasforma in una striscia spessa e melmosa di terra scura mista a pietroni dove risulta impossibile camminare senza cadere. L’autista del fuoristrada rinuncia a proseguire in quanto dice che è troppo rischioso anche per un 4×4.
Lo seguo fino a tornare dal benzinaio. Insieme a noi arriva anche un grande mezzo militare a sei ruote motrici. Dal cassone scendono cinque militari, mentre dalle porte della cabina esce l’autista accompagnato dal più alto in grado. Osservo le enormi ruote artigliate che permettono al mezzo di arrivare ovunque. Poi il grande gancio traino posteriore mi fa pensare a una soluzione. Entro nel chiosco e mi avvicino all’ufficiale al quale mi presento per poi chiedere dove sono diretti.
Mi risponde che stanno andando alla caserma di El Calafate. Gli chiedo se sono disposti a trainarmi per quei 130 chilometri che mi dividono dalla strada asfaltata. Mi rivolge uno sguardo interdetto e poi mi suggerisce di aspettare uno o due giorni, in modo che il vento asciughi il fango e la strada torni a essere praticabile anche per la mia auto.
Spiego anche a lui la mia situazione, certo di ricevere in cambio la stessa reazione mostratami sia dal benzinaio che da chi mi ha offerto ospitalità per la notte. E invece, senza fare altre domande mi dice che l’Esercito Argentino ha il dovere di aiutare chi si trova in difficoltà lungo le strade della Patagonia e che quindi sono disposti a trainarmi. Poi mi porge un modulo da compilare dove dichiaro lo scarico di responsabilità relativa a eventuali danni alla mia auto e aggiunge che per partire dovremo aspettare che tutti i militari terminino la loro colazione. Certo di poter percorrere almeno i primi chilometri in totale autonomia, gli dico che inizio ad avviarmi e che ci incontreremo sulla strada. Le condizioni del fondo non sembrano essere migliorate, ma col passare dei chilometri aumenta la mia confidenza con la guida sul fango.
Mancano un centinaio di metri per raggiungere quella linea netta che divide il fango chiaro da quello scuro e melmoso. Sono sempre più vicino, dovrei fermarmi, ma invece di rallentare accelero. Entro veloce nella distesa di fango acquitrinoso. Sono rassicurato dal fatto che se anche restassi bloccato non dovrò fare altro che aspettare il camion dei militari. Sento le pietre sbattere violentemente sul fondo dell’auto, che però riesce a “galleggiare” se non rallento al di sotto dei 70 km/h. Devo quindi procedere a velocità sostenuta: in rettilineo sono sufficienti decise correzioni per mantenere l’auto in carreggiata, ma in prossimità delle curve il controllo diventa molto più impegnativo e i fossati sembrano sempre più vicini.
Dopo due ore di tensione e di sudori raggiungo la strada asfaltata RN 11 che porta e El Calafate. Mi fermo per attendere i militari e avvisarli che sono riuscito ad arrivare a destinazione. Passano trenta minuti, poi altri quindici, e infine, dopo un’ora decido di scrivere un biglietto di ringraziamento che deposito su un cartello stradale. Il cielo buio, il vento e la pioggia che batte contro le finestre non incoraggiano l’ennesima levataccia.
Non posso però rinunciare alla mia ultima occasione per raggiungere il Perito Moreno. Parto mentre la città dorme. Le luci dell’alba arrivano quando mancano ormai meno di cinque chilometri alla meta. Il tergicristallo fatica a ripulire il parabrezza incessantemente inondato dall’acqua. Nonostante la visibilità sia limitata a una decina di metri decido di non fermarmi; anzi corro sempre più, come se fossi in ritardo per un appuntamento.
Lascio l’auto nel grande parcheggio ed esco proteggendo l’attrezzatura fotografica con una mantella impermeabile. Percorro il sentiero che scendendo dalla penisola di Magellano si avvicina al fronte di ghiaccio. Dalla nebbia giungono botti cupi che sembrano spari di cannone. I forti scricchiolii del ghiaccio rendono ancora più inquietante l’atmosfera. Mi fermo ad ascoltare.
Non vedo nulla, ma avverto la sensazione di quell’enorme massa bianca che si muove lentamente. Una folata di vento fa diradare la nebbia lasciando intravede una parete azzurra che emerge per una trentina di metri dalla superficie del lago Argentino. Il vento aumenta d’intensità, rivelando guglie di ghiaccio che si estendono fino all’orizzonte. Mi sposto in cerca di una visuale che si apra sull’intero fronte. Il cielo si mostra cupo e tormentato, mentre l’acqua che fino a quell’istante era scesa impietosa ora si trasforma in pioggerella. Improvvisamente uno squarcio profondo tra le nuvole crea il passaggio perfetto per un raggio di luce che rivela il Perito Moreno come un diamante incastonato tra le lagune, le montagne e il cielo drammaticamente nero. Pochi secondi e tutto torna avvolto dalla nebbia.
Il momento dello scatto
Avevo quasi perso ogni speranza trovandomi tra quelle nebbie. Solo il vento della Patagonia, che nelle settimane precedenti avevo imparato a conoscere, mi avrebbe potuto aiutare. Quando avvertii le prime raffiche cercai di individuare visivamente il ghiacciaio, quindi mi spostai in corrispondenza di una posizione che mi permettesse di vederlo integralmente.
Nell’attesa che la situazione migliorasse preparai la macchina fotografica con un obiettivo super-grandangolare. Impostai il diaframma a f/16 per ottenere dettaglio e profondità di campo. In base al variare della luce controllavo che il tempo di scatto mi permettesse di ottenere un’immagine priva di effetto mosso. Risultò fondamentale prendere in considerazione anche la variante del vento in quanto mi rendeva instabile: quando soffiava forte dovevo aumentare la velocità di scatto (almeno 1/80” con lunghezza focale di 17 mm su sensore APS – C), intervenendo manualmente sull’impostazione della sensibilità del sensore (aumentando quindi la scala degli ISO).
Quando il vento cessava potevo invece scattare con tempi più lenti e quindi con ISO più bassi, ottenendo di conseguenza una migliore qualità d’immagine. Decisi di non utilizzare il cavalletto in quanto mi avrebbe rallentato negli spostamenti: in base al diradarsi delle nuvole correvo in cerca di un “passaggio” per posizionarmi e riprendere il soggetto.
Dati tecnici
- Data: 17/09/2005
- Corpo macchina: Nikon D2x
- Obiettivo: Nikon 17/55 f2,8
- Lunghezza focale al momento dello scatto: 17 mm.
- Apertura diaframma: F16
- Tempo otturatore: 1/50”
- Compensazione esposizione: 0
- Sensibilità sensore: ISO 200
- Modo di ripresa: A (priorità di diaframmi)
VIAGGI FOTOGRAFICI di Davide Pianezze: