Ogni volta che in Italia si parla di affidare a cittadini europei, in particolar modo tedeschi e dei Paesi del Nord Europa, cani provenienti dai nostri canili si aprono guerre sante che non meritano di essere combattute. Nell’interesse degli animali, che hanno il diritto di non trascorrere la loro esistenza in canili spesso fatiscenti, gestiti da personaggi di dubbia moralità, quando non legati alla criminalità organizzata. Ma anche nell’interesse delle amministrazioni e dei cittadini, che si accollano costi che potrebbero evitare, a tutto vantaggio dei cani che avrebbero la possibilità di vivere in una famiglia, unica sistemazione che possa rendere felice un cane, un animale sociale che ha bisogno di continue interazioni con i suoi simili o con gli esseri umani, con i quali è legato da un rapporto indissolubile lungo migliaia e migliaia di anni.
Invece noi continuiamo a ostinarci a rinchiuderli in canili, spesso in box singoli o con massimo altri due o tre soggetti: diciamo di farlo per ragioni sanitarie, ma questo accade per semplificare la conduzione di una struttura, essendo risaputo che la gestione di gruppi sociali sia molto più complessa.
“Zero cani in canile”
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Tornando ai cani imprigionati nei nostri canili e rifugi, possiamo sapere che nel solo 2020, secondo dati del Ministero della Salute, sono entrati 76.192 cani. Ma quanti sono davvero i cani senza padrone che sono presenti in tutti i canili della penisola, pubblici e privati, gestiti per conto delle amministrazioni con convenzioni o semplicemente creati per raccogliere animali randagi in attesa di adozione? I numeri non sembrano disponibili, salvo errori: il ministero raccoglie i dati degli ingressi e quelli dei transiti e già questi dati sono parziali, perché Sicilia e Calabria solo per fare un esempio, nonostante l’alto tasso di randagismo, non li trasmettono.
Stime fatte sulla cui attendibilità è difficile esprimere opinioni, mancando i criteri che le sorreggono, parlano di oltre 500.000 cani randagi vaganti sul territorio. Cani che vivono e sopravvivono, a seconda delle situazioni, al di fuori del controllo umano, talvolta conducendo una vita accettabile, altre volte vivendo e morendo di stenti.
In un Paese che ha dimostrato di non essere capace di contrastare seriamente il fenomeno, per una serie di ragioni, spesso legate al consenso politico, altre accettate per non andare contro a quella parte di opinione pubblica che si dichiara amante degli animali e che magari sostiene le associazioni che si occupano di tutelare gli animali. Una fetta consistente di popolazione che, seppur si dichiari animalista, non vuole sentir parlare di sterilizzazione obbligatoria, di dolce estinzione delle razze maltrattate geneticamente, di chiusura del commercio.
Senza contare chi sul randagismo in un modo o l’altro ci campa: gestendo canili, trasportando cani con le cosiddette staffette, che si fanno spesso pagare con movimenti non tracciabili, facendo viaggiare gli animali in condizioni di maltrattamento, esponendoli a contagi di ogni sorta, mescolando cuccioli non vaccinati senza alcun criterio.
In una situazione come questa, che rappresenta soltanto una fotografia riduttiva, parziale, sfocata di questo fenomeno, in un Paese dove ogni settimana viene messo sotto sequestro un canile per maltrattamenti, dove i Comuni pagano per cani che forse non esistono più, come accertato da numerose inchieste, il problema capace di accendere, anzi di incendiare gli animi è quello relativo all’esportazione dei cani. Verso altri Paesi della comunità, che si sono dimostrati più capaci di contrastare il randagismo, di gestire la detenzione, di limitare gli acquisti di impulso. Paesi come la Germania, che rappresenta il principale bersaglio della denigrazione di certo animalismo, che ha la tutela degli animali nella sua Costituzione, che non consente, per legge di derivazione europea di effettuare esperimenti su animali che non provengano da allevamenti specializzati (un errore e un orrore, ma comune a tutta Europa), che non ha canili sovraffollati e che ha un’idea di legalità che purtroppo non è raffrontabile con quella italiana. Un Paese, il nostro, dove in cambio delle adozioni dei cani molti Comuni fanno sconti sulla tassa dei rifiuti ma nel quale, per una persona in difficoltà economica, per poter curare il proprio animale può solo sperare nell’attività delle associazioni e dei veterinari di buon cuore (meno diffusi sul territorio di quanto sarebbe auspicabile).
E se fra le associazioni animaliste italiane ce ne sono molte che cercano, fra mille difficoltà, di trovare una famiglia per i cani, affidabile e verificabile anche se oltre un confine che oramai dovrebbe essere solo immaginario, come quello che separa i vari stati europei, altre charity continuano a fare guerre sante. A colpi di carte bollate, denunce e intimidazioni messe in atto nei confronti di chi trova famiglie adottive garantite, seppur fuori dal nostro paese.
Una guerra che sotto questo profilo ha creato una profonda frattura sul fronte delle associazioni che si occupano di tutela degli animali. Su questo argomento sono già stati usati fiumi di inchiostro, si sono registrate azioni giudiziarie che hanno portato a perquisizioni e sequestri, che però non hanno mai portato ad appurare reali situazioni di pericolo per i cani che hanno trovato famiglia in Germania, piuttosto che in altri Paesi del Nord Europa. Dove trovano casa anche i randagi che provengono da altri Paesi europei, come la Spagna o la Romania.
Se andiamo poi a guardare i numeri e le regole da seguire per esportare i cani ci si accorge che stiamo parlando di una particella infinitesimale rispetto a quelli del randagismo nostrano. I cani adottati fuori dall’Italia sono pochi, rispetto al numero dei randagi: trovare famiglie serie e motivate che vogliono adottare animali magari anziani o non in perfetta salute non si trovano a ogni angolo, anche in paesi dove l’attenzione reale verso gli animali, valutata anche sulla consapevolezza dei bisogni di un cane, è sicuramente elevata.