È la mia ultima sera al camp. È stato il periodo più intenso ed emozionante di questi anni in Africa. Un’immersione totale nella natura più incontaminata e selvaggia, lontano per settimane dal mondo “civilizzato”. L’idea di partecipare a un corso come guida naturalistica in Botswana è nata un paio d’anni fa dopo aver conosciuto un italiano che lavorava come accompagnatore turistico per conto di un lodge namibiano.
Quando mi raccontò il suo percorso formativo pensai immediatamente alla possibilità di approfondire le mie conoscenze sul comportamento degli animali della savana, aspetto fondamentale per la mia professione di fotografo.
Non immaginavo però che avrei vissuto un’esperienza così profonda. Muoversi a piedi in questo ambiente rappresenta un ritorno alle origini: rinascono sensazioni ormai dimenticate, come quando l’essere umano non si sentiva l’unico padrone indiscusso del pianeta, ma era consapevole di poter essere la preda di altre specie.
Nonostante le regole ferree sulla sicurezza (ci siamo sempre mossi sotto il controllo di guide armate che in tanti anni d’esperienza non avevano mai sparato un colpo), trovarsi a venti metri da un leopardo spaventato dalla presenza improvvisa dell’intruso essere umano, accelera l’adrenalina come un falco in picchiata sulla sua preda.
Prima di iniziare il corso non immaginavo però che avrei avuto la possibilità di partecipare anche ad attività tanto specifiche, come le operazioni di sostituzione dei radiocollari dei leoni. Notti lunghe, attese interminabili, ossa intirizzite dal gelo e tanta tensione. Poi finalmente il richiamo giusto e l’improvviso manifestarsi nel buio di intere famiglie del felino più temuto del continente. Non si trattava più di semplici emozioni o di apprendimento, ma di poter partecipare attivamente a progetti utili per la salvaguardia delle specie e dell’ambiente.
Per alcuni giorni ho anche affiancato una biologa ricercatrice impegnata in un progetto finalizzato allo studio dell’impatto delle piste sterrate e il passaggio delle auto sul comportamento delle guineafowl (faraone).
Durante il nostro percorso di conta degli esemplari e della loro distanza dalle strade, ci recavamo quotidianamente a sostituire le batterie e le schede di memoria delle trappole fotografiche posizionate in prossimità delle pozze d’acqua.
Ogni sera Karen trascorreva ore a selezionare le migliaia di fotografie che venivano scattate ogni quindici secondi. Una mattina mi chiamò per farmi vedere alcune immagini in sequenza: inizialmente appariva un branco di impala che si abbeveravano, quindici secondi dopo si vedeva invece un leopardo che beveva dopo che gli impala erano scappati. Trascorsi altri quindici secondi veniva ancora ripreso il felino nella stessa posizione; ai quindici secondi successivi la pozza risultava inspiegabilmente vuota (i leopardi non si fermano solo trenta secondi a bere, quindi qualcosa era accaduto o qualche animale stava per arrivare), nel fotogramma successivo, cioè dopo altri quindici secondi, eravamo ripresi io e Karen mentre ci avvicinavamo alla trappola fotografica per estrarre la scheda di memoria…
I racconti serali intorno al falò degli aneddoti degli istruttori sono stati preziosi quanto le lezioni sul campo dove abbiamo imparato a leggere le “storie” scritte dalle tracce lasciate dagli animali sul terreno. È così che la sabbia si trasforma in un libro aperto pronto a svelare scene di caccia, di amori e di fughe disperate.
Eravamo costantemente interrogati su tutto ciò che ci circondava, a iniziare dagli elementi più curiosi. Un giorno, analizzando una serie di impronte lasciate sul terreno apparentemente sconosciute a quell’ambiente, trascorremmo ore a discutere a quale specie della savana potessero appartenere. Infine ci arrendemmo e chiedemmo all’istruttore di svelare il mistero. Lui scoppiò a ridere e disse che era semplicissimo: si trattava degli zoccoli dei cavalli che il giorno precedente avevano iniziato a usare i ranger del parco per un progetto sperimentale. Ai “cavalli della savana” non aveva pensato nessuno.
La fine dei corsi viene ritualmente festeggiata con un brindisi sulla cima delle colline granitiche del parco, tra baci, abbracci e qualche lacrima. Ai piedi delle alture, lungo il fiume in secca, continuano intanto ad alternarsi branchi di elefanti, gnu, impala, babbuini, bufali e zebre che sembrano volerci portare il loro saluto. Intanto il sole si avvicina alla linea dell’orizzonte: tra qualche istante si spegnerà la luce su questo palcoscenico diretto con semplicità e maestria della straordinaria mano della Natura africana.
Il momento dello scatto
Durante la mia permanenza al camp avevo scattato pochissime fotografie. Avevo deciso di dedicarmi interamente all’apprendimento, concentrando le mie energie e il mio tempo agli avvistamenti e allo studio. Portavo comunque sempre con me una macchina fotografica da utilizzare nel caso di eventi eccezionali.
Quella sera partii con un corpo macchina e un paio di obiettivi perché volevo immortalare l’ultimo tramonto africano dalla cima della collina insieme ai miei compagni di corso.
Terminati i festeggiamenti scesi dalla collina in cerca di un punto di ripresa che disegnasse una silhouette contro il cielo. Notai immediatamente la presenza di uno degli istruttori con il classico cappello da guida seduto in una posizione particolarmente interessante contro la luce del sole. Mi
spostai in cerca dell’equilibrio tra le forme: l’istruttore, i miei compagni di corso, il baobab e il sole. Dovetti coricarmi a terra per evidenziare la posizione della gamba dell’istruttore, che rischiava di confondersi con la forma della collina.
La luce del tramonto non è facile da gestire. Impostai la modalità manuale e calcolai l’esposizione in una zona del cielo neutra (non troppo vicino al sole e nemmeno all’area più scura). Col calar del sole ero costretto a continue modifiche dell’esposizione per evitare che il risultato potesse risultare sottoesposto come conseguenza del fatto che l’intensità della luce diminuiva col passare dei minuti.
Modificavo soprattutto l’apertura del diaframma, consapevole del fatto che la variazione della profondità di campo non avrebbe influenzato sostanzialmente il risultato finale per via di diversi fattori: l’impiego di un obiettivo super-grandangolare, la distanza tra me e tutti i soggetti che disegnavano la silhouette e infine un controluce tanto intenso da creare un’immagine totalmente nera di tutto ciò che si trovava al di sotto della linea dell’orizzonte e che quindi sarebbe risultato “appiattito” contro il cielo. Risultava invece determinante la scelta della sensibilità del sensore (che impostai al minimo) al fine di migliorare la qualità dell’immagine e il tempo di scatto, che doveva assicurare l’assenza di effetto mosso. Impostati manualmente questi due parametri, “giocai” costantemente sull’impostazione dell’apertura del diaframma in cerca del giusto equilibrio per la corretta esposizione.
Dati tecnici
- Data: 20/07/2014
- Corpo macchina: Nikon D3s
- Obiettivo: Nikon 17/35 f2,8
- Lunghezza focale al momento dello scatto: 17 mm.
- Apertura diaframma: F16
- Tempo otturatore: 1/80”
- Compensazione esposizione: 0
- Sensibilità sensore: ISO 200
- Modo di ripresa: M (manuale)
VIAGGI FOTOGRAFICI di Davide Pianezze: