L’imponente strada Panamericana, che con i suoi 25.750 km percorre da Nord a Sud l’intero continente americano, quando raggiunge l’estremo nord dell’Ecuador si trasforma in una tortuosa stradina che attraversa la foresta tropicale.
Il fondo è sconnesso e dalle numerose crepe si intravedono le radici delle piante che spingendo verso l’alto tentano di riappropriarsi dei loro spazi naturali.
Questa mattina, dopo aver incontrato il mio amico Mauro Burzio, abbiamo lasciato Quito e ci siamo diretti sulla costa per raggiungere la regione di Esmeralda al confine settentrionale del Paese.
Oltre ad essere una delle aree più povere della piccola nazione sudamericana, è la terra dei narcotrafficanti che si muovono costantemente tra la Colombia e Quito, dove imbarcano le “merci” dirette verso l’Europa.
La nostra destinazione finale è la missione di frati comboniani a San Lorenzo, villaggio di pescatori che si affaccia sull’omonimo fiume.
Su suggerimento di Padre Claudio, un omone alto due metri dal fare deciso incontrato da Mauro in una sua precedete visita, prima di entrare nella regione indossiamo due magliette nere sopra le quali luccicano due grossi crocefissi d’argento. Nel caso in cui venissimo fermati lungo il cammino (spesso i malavitosi locali si travestono da poliziotti), dovremo fingerci missionari italiani per evitare di essere scambiati per turisti.
Sono numerosi i casi di sequestro di persona fatti registrare ogni anno nella regione di Esmeralda. Ai poveri malcapitati viene richiesto un riscatto di qualche decina di migliaia di dollari che le rispettive famiglie dovranno pagare per rivedere vivi i propri cari. Dopo il narcotraffico, è questa una delle “attività” più redditizie dei trafficanti locali.
Con i missionari la questione è diversa, in quanto i narcotrafficanti sanno bene che ai famigliari dei sacerdoti non verrà data la possibilità di pagare alcun riscatto, con conseguente e inutile perdita di energie. Avanziamo tra la foresta a bordo del Land Cruiser di Mauro fino a raggiungere San Lorenzo.
Oltrepassato il cartello che riporta il nome del paese mi rendo immediatamente conto della ragione per la quale è stata stabilita proprio qui una missione di frati Comboniani, noti per operare quasi esclusivamente in Africa. A differenza del resto del Paese, a San Lorenzo tutta la popolazione è di origine africana. Per conoscerne la ragione bisogna risalire al 1533, quando un galeone carico di schiavi provenienti dall’Africa centrale naufragò al largo della costa nord dell’Ecuador. Gli schiavi si salvarono nuotando fino a raggiungere miracolosamente la riva, dove trovarono un ambiente del tutto simile a quello dove erano nati.
Circondati per centinaia di chilometri da una foresta impenetrabile che ricopre la cordigliera della costa, restarono isolati e autosufficienti per centinaia d’anni. Anche i loro aguzzini spagnoli nuotarono fino a riva, ma raggiunta la terra con le armi colme d’acqua salata, molto probabilmente vennero uccisi e rispediti in mare, destinati a diventare pasto fresco per gli squali.
Il nostro compito per i prossimi giorni sarà di fotografare i tanti bimbi orfani della missione e dei villaggi circostanti.
Le foto verranno utilizzate per presentare i bambini a chi in Italia vorrà aiutarli adottandoli a distanza. Le foto più significative verranno utilizzate per la realizzazione di un calendario, il cui ricavato sarà destinato alla missione. Più che un insediamento religioso la struttura ricorda una caserma e ai frati che la conducono gli si può attribuire la definizione di guerrieri.
In passato sono stati attaccati più volte a colpi d’arma da fuoco dai narcotrafficanti che poco gradiscono il loro operato. Si dice che diversi di loro girino armati e che più di una volta abbiano dovuto fare uso della loro artiglieria per difendersi da chi tentava di spaventarli perché lasciassero la regione.
Sono passati tre giorni da quando siamo arrivati a San Lorenzo, dove abbiamo già fotografato circa trecento bambini, alcuni dei quali in gravi condizioni di salute. Oggi abbiamo raggiunto alcuni villaggi nella foresta dove siamo stati accolti dalla popolazione locale col calore umano che contraddistingue i Paesi più poveri del mondo.
Rientrati alla missione decido di fare visita al porto che per ora ho solo intravisto dal finestrino del fuoristrada. Comunico il mio programma a Mauro, già pronto per una meritata doccia, necessaria per via della temperatura e dell’umidità che sembrano incollarci addosso i vestiti. Il mio compagno mi saluta ironicamente dicendo: “non ti preoccupare, se ti sequestrano parlerò io con i tuoi genitori per i termini del riscatto”.
Al porto c’è confusione, diverse barche stanno rientrando con le ceste colme di pesce. Mi siedo su una panchina a osservare. Scatto un po’ di foto ai pescatori, che non si curano della mia presenza. Intanto il cielo si riempie di fregate attirate da ciò che sta accadendo sotto di loro. Si buttano in picchiata sulle barche tentando di sorprendere i pescatori che puntualmente le cacciano via. Il sole inizia a calare e tutti si spostano verso il centro del paese. Nell’aria rimane solo il cigolio malinconico del pontile di fronte a me, sul quale cammina una donna sola e pensierosa.
Rientro anch’io alla missione e mi dirigo nella sala mensa dove l’atmosfera è decisamente più leggera. Padre Juan (di origine spagnola) sta raccontando a Mauro del suo passato di torero (ora pentito) e del passo che da giovane lo rese famoso, meritandosi la menzione nel libro nazionale dei toreri. Il passo era stato battezzato: “el paso de la vocina” (il passo della trombetta), che consisteva nel lasciar passare il toro sotto al mantello per poi pizzicargli giocosamente i testicoli con una mano. Racconto condito dalle risa degli altri frati che con ogni probabilità avevano già sentito la storia centinaia di volte.
Il momento dello scatto
Il porto è uno di quei luoghi dove non ci si annoia mai e dove qualcosa prima o poi accade sempre. È uno degli ambienti che prediligo per fotografare le persone.
Dalla terra ferma rivolsi inizialmente il mio obiettivo verso i pescatori e le loro barche colorate. Quando andarono via il sole iniziò a tramontare rendendo la scena quasi monocromatica. La mia attenzione si spostò sul pontile e su una donna che arrivò in quel momento. Mi concentrai sulla composizione, escludendo innanzitutto dall’inquadratura alcune barche colorate che si trovavano alla mia sinistra. Cercai una posizione che mi permettesse di creare una diagonale con il pontile. Equilibrai l’immagine e riempii il fotogramma giocando sulla posizione della donna, della piccola barca marrone sotto di me e della vegetazione colombiana che si presentava alla riva opposta.
Impostai la sensibilità minima del sensore per ottenere la massima qualità (100 iso). Discorso analogo per l’apertura del diaframma che impostato a metà (f11) offriva la sua massima performance. Con una ridottissima lunghezza focale (17 mm) e tutti i soggetti relativamente lontani, l’apertura di diaframma f11 mi permise di ottenere una più che soddisfacente profondità di campo. Misi quindi a fuoco la donna e rapii il silenzio di quell’istante.
Dati tecnici
- Data: 10 luglio 2005
- Corpo macchina: Nikon D2x Obiettivo: Nikon 17/55 f2,8
- Lunghezza focale al momento dello scatto: 17mm Apertura diaframma: F 16 Tempo otturatore: 1/80
- Compensazione esposizione: 0 Sensibilità sensore: ISO 100
- Flash: no Modo di ripresa: A (priorità di diaframmi)
VIAGGI FOTOGRAFICI di Davide Pianezze: www.fattoreulisse.com
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