Donald Trump è il 45esimo presidente degli Stati Uniti. Sondaggi, studiosi e mercati puntavano su Hillary Clinton. Gran parte della stampa nostrana pure. Invece gli americani hanno scelto l’altro.
Controllerà il Congresso, sceglierà il giudice decisivo della Corte Suprema, governerà le trasformazioni sociali interne e orienterà la politica estera. I suoi comportamenti e le sue dichiarazioni durante la campagna elettorale hanno spaccato la nazione e destato preoccupazione fra gli osservatori internazionali.
Trump ha mostrato scetticismo sul cambiamento climatico, anche se si è mostrato ormai lontano dalle dichiarazioni del 2012, quando aveva liquidato l’argomento come un concetto creato da e per la Cina, in modo da rendere l’industria manifatturiera americana meno competitiva.
Il nuovo presidente ha comunque sostenuto di voler incoraggiare l’uso di risorse energetiche utili a ridurre le emissioni, ma mira anche a ridurre il prezzo dell’energia e aumentare la produzione economica interna. È da queste dichiarazioni, più che da altre, che occorre partire.
Non sarà facile, ma bisogna provarci.
Del resto la strada verso un’economia sostenibile è ancora tutta in salita e segnali in tal senso giungono dagli Usa come dall’Italia. Il giorno in cui si è aperta la XXII Conferenza delle Parti sul Clima, a Marrakech, in Marocco, il Corriere della Sera ha scelto di pubblicare un editoriale di Paolo Mieli che già nel titolo rivela le sue intenzioni: “I dati, i dubbi e gli eccessi sul cambiamento climatico”.
Con toni garbati e apparentemente equilibrati l’autore pone l’accento sul “linciaggio di chi muove legittime obiezioni all’assunto che riconduce interamente all’uomo il surriscaldamento del pianeta”. Nella prima parte, l’articolo suona come un appello alla libertà di pensiero e di espressione in tutti gli ambiti, scienza compresa, è ovvio. E al lettore pare di non poter far altro che essere d’accordo.
Poi il giornalista veste i panni a lui cari dello storico e sciorina una serie di notizie, fatti noti, che qualsiasi studente chiamato ad affrontare il tema dei cambiamenti climatici non mancherebbe di elencare: la coltivazione della vite in Inghilterra nei primi anni dopo Cristo, la fase di riscaldamento che attorno all’anno mille consentì di colonizzare la Groenlandia e l’America del Nord e via discorrendo.
Qui Mieli rivela di essersi avventurato su una china che forse padroneggia con minore disinvoltura, perché dimentica (o trascura?) di aggiungere che i climatologi non solo hanno approfondito da tempo i cambiamenti climatici da lui ricordati, ma hanno saputo anche ricostruire le condizioni presenti in altre aree geologiche attraverso carotaggi delle calotte polari. Ciò ha reso chiaro un fatto: il problema sta nella velocità senza precedenti con cui il pianeta si sta riscaldando. E c’è poco di cui sorridere.
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