Sono anni ormai, che la comunità scientifica continua a porsi mille domande sul ruolo delle mutazioni somatiche, ovvero le mutazioni che interessano le cellule del corpo, nel processo di invecchiamento. Compaiono in maniera naturale durante tutta la vita dell’organismo: si quantifica che le cellule umane ne riescano ad accumulare fra le 20 e le 50 ogni anno.
Più una specie vive a lungo, più lentamente si accumulano mutazioni genetiche nel proprio Dna.
A conferma di questo, arriva uno studio britannico pubblicato su Nature ad aprile 2022, che aggiunge nuovi tasselli al puzzle dell’invecchiamento.
La ricerca è stata condotta dal Wellcome Sanger Institute e dalla Società zoologica di Londra, che insieme hanno messo a confronto il tasso di accumulo delle mutazioni in alcuni mammiferi, includendo l’uomo nella lista e scoprendo che, nonostante l’enorme variabilità nella durata della vita e delle dimensioni corporee, gli animali concludono la loro presenza sulla Terra con un numero simile di mutamenti genetici.
Le mutazioni somatiche e la correlazione con l’invecchiamento
La maggior parte delle mutazioni non sono pericolose, alcune invece possono nuocere al funzionamento della cellula – e perciò spiegare almeno in parte il processo di invecchiamento – oppure indirizzarla a un’evoluzione tumorale.
I ricercatori del Wellcome Sanger Institute per studiare le mutazioni somatiche, in un insieme diversificato di mammiferi, hanno eseguito il sequenziamento dell’intero genoma in 208 singole cripte intestinali da 56 individui in 16 specie con un’ampia gamma di durata della vita e dimensioni corporee: scimmia colobo in bianco e nero, gatto, mucca, cane, furetto, giraffa, focena, cavallo, umano, leone, topo, topo talpa nudo, coniglio, ratto, lemure dalla coda ad anelli e tigre.
I motivi che hanno portato gli studiosi a scegliere le cripte intestinali sono stati vari, esse sono unità identificabili istologicamente che rivestono l’epitelio del colon e dell’intestino tenue e sono suscettibili alla microdissezione laser. Studi sull’uomo hanno confermato che le singole cripte presentano un accumulo lineare di mutazioni con l’età, che permette la stima dei tassi di mutazione somatica attraverso il sequenziamento del genoma di singole cripte. Fra le altre cose, in quasi tutte le cripte umane, la maggior parte delle mutazioni somatiche sono prodotte da processi mutazionali endogeni comuni ad altri tessuti, piuttosto che da mutageni ambientali.
È stato visto che, le mutazioni somatiche si accumulavano in maniera lineare nel tempo ed erano prodotte da meccanismi simili in tutte le specie prese in considerazione, compreso l’uomo.
I cambiamenti genetici scoperti nella ricerca fanno comprendere che le malattie della vecchiaia appaiono similari in una vasta gamma di mammiferi, indipendentemente dal fatto che essa inizi a cinque mesi o a 70 anni.
La prova di una possibile correlazione fra le mutazioni somatiche e l’invecchiamento è emersa proprio dalla constatazione che il tasso di mutazione diminuiva all’aumentare della durata della vita di ciascuna specie. Tendenzialmente, una giraffa è circa 40 mila volte più grande rispetto a un topo, e un essere umano vive 30 volte di più ma la discrepanza nel numero di mutazioni per cellula fra le tre specie, valutata la longevità di ognuno, è risultata limitata.
Le conclusioni dello studio sull’invecchiamento
Alex Cagan, primo autore della ricerca, sostiene: «Scoprire che la durata della vita è inversamente proporzionale al tasso di mutazioni somatiche suggerisce che esse possano svolgere un ruolo nell’invecchiamento. In futuro, sarebbe affascinante estendere questi studi a specie ancora più diverse, come gli insetti o le piante».
Dopo aver preso in considerazione la durata della vita, gli autori hanno cercato, invano, un’associazione anche tra il tasso di mutazione somatica e la massa corporea degli animali.
«Sebbene l’ipotesi della regolazione del tasso di mutazione sia una soluzione elegante per spiegare l’incidenza dei tumori tra le diverse specie, l’evoluzione non sembra aver preso questa strada. È del tutto plausibile che, ogni volta che una specie evolve di dimensioni maggiori rispetto ai suoi antenati, la biologia escogiti una soluzione differente a questo problema» aggiunge il collega Adrián Báez Ortega.
Nonostante il risultato, gli stessi ricercatori britannici non gridano alla vittoria, ed evidenziano come siamo ancora distanti dal capire a fondo l’invecchiamento. «Il progressivo accumulo di mutazioni somatiche nel corso della vita è uno dei processi ritenuti alla base dell’invecchiamento: più volte si replica una cellula, maggiore è il numero di mutazioni che emergeranno. Le modifiche del Dna possono alterare la funzionalità delle proteine che a loro volta possono indurre cambiamenti fisiologici nell’organismo» afferma Maurizio Genuardi, Professore di genetica medica dell’Università Cattolica a Roma e presidente della Società europea di genetica umana, tenendo presente che fino ad oggi pochi studi collegano l’accumulo di mutazioni somatiche all’età biologica nell’essere umano.
«Sappiamo però che l’invecchiamento dipende da un insieme di fattori. Fra questi vi sono le alterazioni epigenetiche, che possono cambiare il funzionamento del Dna e dunque l’attività dei geni, e l’accorciamento dei telomeri dei cromosomi: queste piccole porzioni di Dna, che proteggono l’estremità dei cromosomi, vengono ridotte ad ogni replicazione» definisce il Professore.