Non per recitare sempre la parte antipatica di quelli “che noi l’avevamo detto”, però neanche un anno fa, su La Rivista de la Natura scrivevamo così.
«Se andiamo avanti così tutta l’Italia sarà alluvionata. E non è una previsione avventata se si pensa che negli ultimi anni circa la metà dei comuni italiani ha subito frane, smottamenti e alluvioni. Questo è quanto siamo riusciti a fare per l’acqua. Abbiamo trasformato una fonte di vita in un nemico che passa, distrugge, uccide».
Queste parole potrebbero essere state scritte poche settimane fa, oppure anche ieri, a commento degli innumerevoli disastri che hanno colpito il nostro Paese durante un inverno molto piovoso. Fa piuttosto male, invece, sapere che sono riprese da una Pubblicità Progresso girata nel 1977.
Non abbiamo imparato nulla, e lo dimostrano anche le cronache che hanno accompagnato le forti piogge di questa stagione. La gran parte dei quotidiani e dei telegiornali ha parlato di “bombe d’acqua” e di eventi eccezionali. Si è fatto il solito, quanto inutile, ricorso alle statistiche; si è dato voce alla gente che di fronte alle telecamere dice: «Non si era mai vista una cosa del genere».
L’unico dato davvero eccezionale non sono i millimetri di pioggia caduti in un solo giorno o in un solo mese, ma il consumo record di suolo che ha reso gran parte del territorio italiano spaventosamente fragile. Talmente fragile che si allaga, frana e crolla con ritmo impressionante e direttamente proporzionale al livello del dissesto.
Il nostro paesaggio da oltre cinquanta anni è aggredito da speculazioni, abusivismi e condoni. Già un quarto di secolo fa Antonio Cederna scriveva: «Tra i primati alla rovescia di cui possiamo vantarci, c’è anche quello di essere i maggiori produttori-consumatori di cemento del mondo, due-tre volte gli Stati Uniti, il Giappone, l’Unione Sovietica: 800 chili per ogni italiano (…) Gli esperti calcolano che nell’ultimo trentennio abbiamo sommerso sotto cemento e asfalto un quinto dell’Italia (circa sei milioni di ettari): e che andando avanti con questo ritmo (100-150.000 ettari all’anno, 400 ettari al giorno), tra tre o quattro generazioni tutta l’Italia sarà consumata e finita (…) L’Italia è dunque un paese a termine (…) E lo diciamo ben sapendo che il peggio deve ancora avvenire». Ecco, se non si ricorda questo, si rischia di non capire.
Ogni anno siamo costretti a sopportare perdite di vite umane e costi sociali elevati a causa di calamità che in molti casi potrebbero essere evitate se solo si seguissero le più elementari regole di pianificazione e si facessero investimenti seri nella messa in sicurezza del territorio. Nelle passate settimane frane e alluvioni hanno messo in ginocchio centinaia di migliaia di italiani; hanno danneggiato migliaia di aziende e infrastrutture; hanno bloccato linee ferroviarie; hanno deturpato siti archeologici che tutto il mondo ci invidia. Tutti questi eventi si sono sovrapposti ai precedenti disastri con effetti drammatici: dal 1950 ad oggi si contano 5.459 vittime e oltre 4mila fenomeni idrogeologici devastanti, ma dai 100 eventi l’anno registrati fino al 2006 siamo passati al picco di 351 del 2013 e ai 110 nei soli primi venti giorni del 2014. Il 13% del territorio nazionale è in forte erosione e a rischio frane. Occorrerebbero circa 7 miliardi di Euro per gli interventi più urgenti, 40 per la totale messa in sicurezza. Tanto, tantissimo. Ma secondo il Rapporto sullo stato del territorio italiano, realizzato nel 2010 dal Centro Studi del Consiglio Nazionale dei Geologi, il valore dei danni causati da eventi franosi e alluvionali dal dopoguerra a oggi è stimabile in circa 52 miliardi di Euro. Una perdita economica immensa per lo Stato: spendiamo ogni anno un sacco di denaro per riparare i danni, senza fare un passo avanti per prevenirli, anzi indietreggiamo. Dopo decenni di malgoverno del territorio, la Natura presenta il conto ed è sempre più salato. In un’intervista del 1975 ancora Cederna affermava: «Questo è un Paese di piccoli proprietari dove il suolo deve essere tutto quanto edificabile, la casa una tana di lusso, e gli spazi collettivi, invece, uno schifo». Quanto è triste a volte la verità.
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