Da quando sono sbarcato a Chaiten con la piccola Renault Clio, ho lasciato dietro me più di settecento chilometri di polvere che, come un fantasma diretto verso il cielo, mi ha accompagnato lungo la Carretera Austral. Ho attraversato paesaggi remoti e sconosciuti, ed è proprio questa una delle caratteristiche che rende la Patagonia cilena tanto affascinante: il suo essere ancora sconosciuta al mondo.
I fari dell’auto illuminano la pioggia che arriva da ogni direzione, mentre le ruote sollevano pietre e schizzi di fango. Il cammino è un continuo saliscendi che mi fa serpeggiare alla cieca tra la cordigliera.
Sono trascorse diverse ore da quando ho incontrato gli ultimi segni di vita della zona. Si erano manifestati attraverso alcune finestre illuminate che, nell’oscurità della notte, sembravano quadri animati sospesi nel nulla.
Raggiungo il paesino di Puerto Guadal, dove cercherò una sistemazione per trascorrere le poche ore rimaste prima della nuova alba. Percorro ogni strada in cerca di un hotel, di una cabaña (cottage classici della Patagonia cilena), o di una semplice camera. Nonostante le case presentino un aspetto tutt’altro che solido, resistono da anni ai venti che spesso superano i cento chilometri all’ora. Finalmente mi imbatto in un cartello cigolante che indica “Hosteria Huemules”. Le luci sono spente e dalle condizioni della facciata sembra abbandonato. Scendo dall’auto e in un istante la pioggia che arriva orizzontalmente trasforma i miei pantaloni in uno straccio inzuppato. Picchio alla porta, ma senza successo. A lato dell’hosteria c’è una costruzione simile, ma in condizioni peggiori. Non mi arrendo al pensiero di dover trascorrere la notte in auto. Mi avvicino al portone, busso, busso ancora, sempre più energicamente, poi chiedo a gran voce se non c’è nessuno, mentre sento l’acqua ghiacciata che raggiunge prima le caviglie e poi i piedi. Inizio a perdere le speranze.
Torno verso l’auto quando il portone inizia ad aprirsi. Esce un uomo anziano, magro e dai movimenti lenti. Mi chiede come può aiutarmi. Gli rispondo che sono in cerca di una sistemazione per la notte, ma che l’hosteria sembra deserta. Dice che l’hosteria è sua e che se voglio mi può affittare una camera. Accetto prima ancora che finisca di palare e senza chiedere il prezzo della camera, tanto mi sento in colpa per averlo disturbato nel cuore della notte. Nonostante l’ora, e l’acqua che sta certamente inzuppando anche i suoi vestiti, non sembra infastidito dal mio arrivo improvviso. Scarico le borse dall’auto mentre lui apre la porta dell’hosteria. La sala principale è arredata con vecchi mobili di legno scuro e con tendoni e divani dai tessuti spessi e i colori sobri. La polvere, che riveste ogni superficie, rilascia nell’aria quell’odore dei locali che non vedono la luce da molto tempo. Le pareti sono occupate da numerosi trofei e da grandi quadri. Mi sento osservato da ogni direzione: dagli sguardi inquietanti dei personaggi rappresentati nei dipinti e dagli occhi in vetro dei huemules (cervo patagonico), delle volpi, dei puma, degli armadilli, dei falchi, e di diversi altri volatili imbalsamati.
Mi soffermo di fronte al ritratto di un uomo in divisa dallo sguardo severo e sereno al tempo stesso. Anche il proprietario dell’hosteria si ferma accanto a me ad osservare. Mi dice che il personaggio rappresentato era suo padre, un militare libanese trasferitosi in Patagonia cilena nella prima metà del Novecento. Nel quadro è anche rappresentata una vistosa cicatrice al centro della mano destra. È il ricordo lasciato dal proiettile che suo padre fermò per salvare la vita a un superiore durante una battaglia. Come premio per la sua azione tanto altruistica e coraggiosa gli venne offerta la possibilità di lasciare l’esercito e, se l’avesse chiesto, di andare in un qualsiasi Paese del mondo. Lui scelse la Patagonia cilena, di cui aveva sentito parlare in passato probabilmente da un viaggiatore. Ricevette un compenso e venne imbarcato su una nave diretta in Sud America. Dopo mesi di viaggio arrivò a Puerto Guadal, dove decise di costruire un piccolo albergo e dove si sposò con una donna locale. Da quel matrimonio nacque un bambino che chiamarono Quemel.
Negli occhi azzurri dell’uomo che ho di fronte rivedo i personaggi e le storie straordinarie narrate nei libri degli scrittori cileni Francisco Coloane e Luis Sepulveda. Leggendo quei racconti sulla Patagonia cilena mi chiedevo spesso se si riferissero a realtà o a storie inventate. Ora che ho iniziato a conoscere gli abitanti di questa regione realizzo quanto le loro storie siano estreme, al limite della realtà, proprio come la loro terra.
Pago la camera, risalgo la scalinata e percorro il corridoio buio che mi porta alla mia camera. Mi accompagna il continuo cigolio delle assi calpestate e delle pareti mosse dal vento. L’intera costruzione potrebbe essere un perfetto set cinematografico destinato all’horror. A completare lo scenario surreale, e un po’ inquietante, a lato del mio letto trovo un grande orologio a pendolo dai rintocchi cupi e drammatici che suona ogni trenta minuti e che decido di bloccare per poter prendere sonno.
È mattina, il cielo è sereno e le cime a ovest iniziano a illuminarsi. Trascorro l’intera giornata sulle rive del lago General Carrera, uno dei più estesi del Sud America. Il sole mi accompagna fino al tardo pomeriggio, quando una serie di nuvole scure iniziano a materializzarsi e a rincorrersi, creando giochi di luci e ombre che si proiettano sulla superficie del lago ridipingendo il paesaggio.
Mancano ancora molti giorni prima di arrivare a Punta Arenas, la città più a sud del mondo sulla terra ferma. Quella che inizialmente doveva essere un’avventura tra i fiordi cileni e le distese sconfinate della pampa argentina si sta trasformando in un viaggio tra le storie straordinarie di questa gente, storie di gaucho, di cavalli, di bestiame, di montagne, di ghiaccio, di vento e di nuvole.
Il momento dello scatto
La strada che percorre le pendici meridionali del lago General Carrera si inerpica su ripidi promontori scavati dai corsi d’acqua che scendono dalla cordigliera della Patagonia cilena. Percorsi più volte quel tratto di strada in cerca di un punto panoramico sufficientemente esposto per riprendere il lago dall’alto. Lasciai l‘auto in un piccolo piazzale. Scesi e dopo aver fatto pochi passi venni travolto da una folata di vento improvvisa che mi spostò di diversi metri rischiando di far cadere a terra me e tutta l’attrezzatura fotografica. Durò un solo istante, come un avvertimento per dissuadermi dall’idea di avvicinarmi troppo al dirupo.
Procedetti con maggior cautela riponendo l’attrezzatura nello zaino per avere le mani libere in caso di caduta. Raggiunta timidamente una grande roccia a picco sul lago mi sedetti e assicurai lo zaino a un arbusto spoglio che spuntava dal terreno. Montai la macchina fotografica sul cavalletto che, nonostante il peso, si spostava insieme a me ad ogni colpo di vento. Intanto le nuvole si muovevano a grande velocità creando giochi di ombre e luci sullo specchio d’acqua.
Un’immagine monocromatica che non avrebbe necessitato di alcuna ottimizzazione digitale se esposta correttamente. Chiusi il diaframma a f16 per ottenere maggior dettaglio e profondità di campo. Per via del vento che non garantiva la stabilità dell’attrezzatura decisi di scattare con un tempo minimo di 1/640 di secondo. Per ottenere un marcato effetto della silhouette di tutto il paesaggio regolai l’esposizione calcolandola sui riflessi della luce provenienti del lago, in modo da rendere più intense le ombre. Di conseguenza impostai la sensibilità del sensore (ISO 200). Attesi che le nuvole si disponessero in modo armonioso e che le ombre e i riflessi della luce proiettati sulla superficie dell’acqua risultassero in equilibrio tra loro. Infine optai per un taglio verticale (poco usuale per la fotografia paesaggistica) per evidenziare le zone di luce che si crearono in quell’istante e per escludere le alture ai lati in quanto interamente in ombra. Realizzai numerosi scatti in rapida sequenza per timore di ottenere immagini mosse dovute al forte vento. Riposta l’attrezzatura nello zaino rimasi seduto sul roccione ad ammirare le evoluzioni delle nuvole e i loro riflessi sulle acque del lago General Carrera, in attesa che il sole si nascondesse dietro le montagne.
Dati tecnici
- Data: 13/01/2012
- Corpo macchina: Nikon D300
- Obiettivo: Nikkor 17/55 f2,8
- Lunghezza focale al momento dello scatto: 38 mm
- Apertura diaframma: F 16
- Tempo otturatore: 1/640 sec.
- Compensazione esposizione: 0
- Sensibilità sensore: ISO 200
- Modo di ripresa: M (manuale)
VIAGGI FOTOGRAFICI di Davide Pianezze:
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