Tra gli insediamenti preistorici dell’Età del Bronzo meglio conservati nell’area del Mediterraneo c’è il Villaggio dei Faraglioni dell’isola di Ustica, in Sicilia. Qui, su un fazzoletto di terra affacciato sul mare, viveva più di tremila anni fa una comunità di qualche centinaio di persone, dedite per lo più all’agricoltura e alla pesca.
Ma la vita di questa popolazione, che per difendersi delle insidie dell’epoca aveva costruito un possente muro fortificato, lungo 250 metri, alto 5 e rafforzato da 13 torrioni, si interruppe all’improvviso, come testimoniano i resti di capanne ritrovati con gli arredi e le suppellettili abbandonati nella loro posizione d’uso, come quando si scappa senza avere il tempo di portar via nulla. Quali siano state le cause di tale fuga – un disastro naturale, una deportazione di massa, una crisi ambientale – è un mistero rimasto finora irrisolto.
Un’indagine strumentale nel Parco archeologico
Per scoprire qualcosa di più, i geologi dell’ Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), insieme a studiosi del Parco archeologico di Himera, Solunto e Iato di Santa Flavia (PA) – una collaborazione fortemente voluta da Domenico Targia, neodirettore del Parco – hanno iniziato specifiche operazioni di ricerca che, mediante tecniche d’indagine in grado di esplorare il terreno sottostante fino a qualche metro di profondità senza ricorrere a scavi, vanno a indagare gli ambienti, le strutture e gli oggetti sepolti. A cominciare dal grande muro difensivo del Villaggio dei Faraglioni, obiettivo principale della prima fase dell’indagine, un complesso sistema fortificato, composto da varie strutture interconnesse che si sviluppano su una vasta area all’esterno della muraglia.