Ogni mattina la fitta nebbia, conosciuta con il nome di camanchaca, si ritira verso l‘oceano Pacifico e lascia che i raggi del sole riscaldino la terra fino a rendere scottante ogni singola pietra. Ciò che l’umidità della notte fa apparire luccicante, cambia aspetto in un istante e si mostra ruvido, fragile, corroso dalla luce accecante del deserto di Atacama.
Se non mi fossi imbattuto nel segnale che indica la miniera di Humberstone, le cui costruzioni avvolte dalla nebbia si trovano a pochi metri dalla strada che unisce Iquique alla Panamericana, non avrei nemmeno rallentato.
Accosto, scendo dall’auto e mi ritrovo in mezzo a una città fantasma circondata per decine di chilometri da aride colline. Cammino nelle strade tracciate da edifici crollati, macchinari arrugginiti e vecchie locomotive abbandonate. Una serie di cartelli indicano le strutture pubbliche: la chiesa, il comune, il teatro, il parco giochi, il campo di calcio.
Poi all’improvviso arriva una brezza da est che libera il cielo fino a svelare la linea dell’orizzonte. Il cigolio delle lamiere sembra voler ricordare le anime della gente che per più di sessant’anni ha vissuto in questo luogo dimenticato da Dio. È difficile oggi pensare che fu la ricchezza naturale di questi luoghi a far scatenare una guerra tra le nazioni circostanti. A fine Ottocento, al termine di quattro anni di sanguinose battaglie, il Cile riuscì a estendere i propri territori verso nord, appropriandosi di ciò che prima apparteneva a Bolivia e Perù. La ragione del conflitto era il salnitro, un sale minerale utilizzato a inizio Novecento sia come fertilizzante che per la produzione di materiale esplosivo per l’industria bellica.
La ferrovia, ad oggi abbandonata, permetteva di trasportare la produzione verso la costa, dove veniva imbarcata per essere destinata ai mercati di Europa e nord America. Gli oggetti che si trovano in terra e nel piccolo museo raccontano le storie di intere famiglie che alla povertà avevano preferito una sorta di detenzione. Pentole, barattoli di vetro, lattine, giocattoli, attrezzi corrosi dal tempo, sembrano voler sopravvivere per testimoniare come l’essere umano sia in grado di adattarsi alle condizioni più estreme.
Le regole imposte dall’amministrazione erano paragonabili a quelle introdotte con la schiavitù. Per evitare che i lavoranti potessero lasciare la miniera venne anche introdotta una moneta riconosciuta esclusivamente all’interno delle due città. Chi decideva di scappare sapeva quindi che non avrebbe portato nulla con sé.
A poco più di un chilometro da Humberstone appare la raffineria di Santa Laura, dove veniva lavorato il salnitro. È un intreccio fatiscente di travi metalliche pericolanti che gli eventi atmosferici hanno momentaneamente risparmiato. Vista da lontano la struttura principale sembra una nave arenata nella sabbia, mentre l’alta ciminiera centrale ricorda l’albero maestro di un antico veliero.
Mi avvicino, supero una parete in legno e mi arrampico su una scala scricchiolante e poco rassicurate. Raggiungo la balconata superiore e la percorro tenendomi saldamente al mancorrente. Sotto di me un groviglio di tubature sbuca dalla sabbia e si incanala in una grande cisterna. È come muoversi tra le viscere di un dinosauro. Da ciò che rimane del tetto in lamiera filtrano lame di luce che si proiettano sul terreno, mentre il vento continua a trasportare la sabbia che ricopre e cristallizza ogni cosa.
Mi torna in mente un anziano signore africano incontrato diversi anni fa in Namibia. Durante la nostra chiacchierata mi disse che il deserto ha una sua memoria e che non dimentica nulla. Non è quindi casuale se proprio qui, nella regione più arida della Terra, sono stati ritrovati i corpi umani mummificati più antichi della nostra storia (cultura Chinchorro 5.000 – 3.000 a.C.), oggi custoditi in un museo della Prima Regione del Cile. Ripenso anche allo scheletro umano che ho trovato ieri adagiato sulla parete di una fossa nel cimitero di Arica, luogo tristemente conosciuto come uno dei lager cileni dove venivano deportati e trucidati i dissidenti della dittatura di Pinochet. Anche in questo caso il deserto ha aiutato a mantenere viva la memoria.
Ma il deserto non è solo morte, sofferenza e desolazione. È sera, riprendo il mio cammino e dopo aver percorso pochi chilometri verso sud rallento per cedere il passo a un guanaco solitario (uno dei quattro camelidi del sud America) che attraversa elegantemente la strada. È una delle poche specie animali ad essersi adattata a questo ambiente tanto ostile. Gli sono sufficienti poche gocce di rugiada, quelle che lascia ogni mattina la camanchaca, per idratarsi per l’intera giornata e sopravvivere al caldo torrido delle lunghe giornate ventose delle regioni dell’Atacama.
Il momento dello scatto
Per un fotografo una città abbandonata è tesoro colmo di spunti. Ad ogni angolo appare un elemento nuovo da riprendere. A volte però si rischia di perdere la concentrazione e immortalare qualsiasi oggetto senza dare troppa importanza alla composizione. In queste circostanze, prima di iniziare a fotografare, preferisco muovermi per esplorare con gli occhi, lasciando quindi la
macchina fotografica nello zaino. È importante famigliarizzare ed entrare in sintonia con ciò che fotograferemo in quanto aiuta a previsualizzare il risultato finale.
Trascorsi l’intera giornata tra le due città fantasma in cerca di spunti e inquadrature. Quando il sole iniziò a farsi basso, i colori più caldi e le ombre più lunghe e marcate, presi la macchina fotografica e raggiunsi quelle postazioni che avevo individuato in precedenza. Ad ogni singola foto dedicavo il tempo e la calma necessari per curarne ogni aspetto e dettaglio, mentre gli spostamenti tra i vari siti avveniva in modo estremamente frettoloso, con un occhio rivolto al sole che si avvicinava sempre più rapidamente alla linea dell’orizzonte.
L’ultima mezzora la dedicai ad una zona dove erano state abbandonate lamiere di camion e di locomotrici. Sapevo che gli ultimi raggi del sole avrebbero “incendiato” quelle superfici rugginose e rese più evidenti le ondulazioni del terreno che col sole alto risultavano piatte.
Feci uso del cavalletto perché il vento mi rendeva instabile, oltre al fatto che l’ultima luce della giornata iniziava a perdere d’intensità.
Impostai un diaframma a media apertura in modo da sfruttare la qualità massima delle lenti per evidenziare i dettagli della lamiera in primo piano. Riempii quindi il fotogramma equilibrando l’immagine con le ondulazioni del terreno, la lamiera in primo piano (che mi ricordava un grande paio d’occhiali rivolti verso la città) e le costruzioni fatiscenti sullo sfondo.
Dati tecnici
- Data: 03/09/2005
- Corpo macchina: Nikon D2x
- Obiettivo: Nikkor 17/55 f2,8
- Lunghezza focale al momento dello scatto: 17 mm
- Apertura diaframma: F 8
- Tempo otturatore: 1/60 sec.
- Compensazione esposizione: 0
- Sensibilità sensore: ISO 100
- Modo di ripresa: A (priorità di diaframmi)
VIAGGI FOTOGRAFICI di Davide Pianezze:
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