Ho sperimentato più volte che un episodio negativo, destinato a cambiare il corso degli eventi, può dar vita a opportunità inaspettate, soprattutto in viaggio. Non ho mai provato particolare simpatia per le compagnie aeree e la comunicazione della cancellazione del volo Esquel – Buenos Aires da parte di Aerolineas Argentina, a meno di trenta giorni dalla partenza, non ha certo contribuito ad addolcire i miei sentimenti. Esquel si trova in Argentina, più o meno all’altezza dell’estremità settentrionale della Carretera Austral, la strada leggendaria che attraversa i fiordi della Patagonia cilena.
Per chi, come me, arriva dalle regioni più australi del continente, non raggiungere quelle latitudini significa interrompere anticipatamente il viaggio. La malaugurata notizia rischiava inoltre di far rimandare l’appuntamento col volo che il giorno successivo sarebbe partito per l’Italia. L’unica possibile alternativa era il lunghissimo trasferimento coast to coast che collega l’oceano Pacifico a quello Atlantico, con destino finale l’aeroporto delle triste, anonima e un po’ inquietante città di Comodoro Rivadavia.
La situazione risultava ulteriormente complessa poiché avrei accompagnato un gruppo di viaggiatori/fotografi iscritti al mio viaggio in Patagonia. Anche loro erano piuttosto sconsolati a causa del cambio di programma non propriamente desiderato.
Definita la nuova meta avevo aperto la cartina del Sudamerica e con il dito indice avevo seguito la strada più diretta che da Puerto Aysen (Cile) attraversa la cordigliera patagonica per raggiungere prima la pampa e poi la costa argentina. Giunto a metà dell’ipotetico itinerario mi ero imbattuto in una scritta rossa che evidenziava un punto d’interesse. Si trattava della foresta pietrificata di cui conoscevo l’esistenza, ma non avevo mai avuto occasione di visitare in quanto lontana dai miei itinerari e, per certi versi, anche dal resto del mondo, ameno nel mio immaginario.
Partiamo alle 6 del mattino e poco dopo iniziamo a risalire la cordigliera patagonica per poi attraversare – per la quarta volta in dodici giorni – il confine tra Argentina e Cile. Raggiunte nuovamente le piste sterrate della pampa, ci dirigiamo verso est. L’ambiente, dagli orizzonti lontanissimi e dalle storie epiche, ha il potere di offrire la sensazione della scoperta, il sapore più puro del viaggio. Tutto appare lontanissimo. Pianure, colline, pietraie, ciuffi d’erba, cavalli, pecore, fattorie abbandonate, copertoni distrutti e carcasse di camion bruciati si susseguono ininterrottamente tracciando la via.
La scritta rossa della cartina si materializza nel nulla incisa su un’insegna di legno. Lasciamo la RN26 e svoltiamo verso sud. Oltrepassiamo il cancello d’entrata nel Parco e parcheggiamo nel piazzale. Nonostante il motore spento e il freno a mano assicurato, l’auto continua a scuotersi. Apro la portiera e mi aggrappo con entrambe le mani al maniglione per evitare che il vento la faccia volare via come un lenzuolo steso senza mollette. Mi porto quindi al lato opposto del veicolo per aiutare i miei compagni a uscire senza finire in terra per via dell’inevitabile impatto con l’aria. Più che la discesa da un veicolo sembra il lancio di un gruppo di paracadutisti.
Pagato il biglietto d’entrata imbocchiamo il sentiero che raggiunge i vari siti. Camminiamo chini per contrastare le raffiche improvvise che continuano a investirci. Le nuvole alte nel cielo tracciano lunghe strisce che convergono verso un punto immaginario, lontano, oltre l’infinito.
Ai lati del sentiero osserviamo le testimonianze di reperti risalenti a 65 milioni di anni fa. Tronchi pietrificati, dalle infinite sfumature, emersi dai fondali di antichi laghi prosciugati nel corso dei periodi geologici. Raggiungiamo la cima di una collina dove il nostro equilibrio viene messo nuovamente alla prova. Ci teniamo per mano per tornare indenni al parcheggio.
Cesarina, una delle partecipanti, lungo il cammino chiede alla guida il nome di quel vento che da quando siamo arrivati soffia costantemente da ovest. La guida la guarda stupito, e lapidario le risponde: «el viento aquí siempre llega desde el Oeste y su nombre es… Viento!» (il vento qui arriva sempre da Ovest e il suo nome è… Vento!)
Il momento dello scatto
La difficoltà principale fu restare in piedi. Ancor prima di pensare a inquadratura, composizione, e settaggi vari, mi preoccupai quindi di definire il tempo di scatto dell’otturatore. Il vento arrivava a raffiche e la sua imprevedibilità rendeva difficoltosa e instabile qualsiasi posizione. Il rischio che l’immagine risultasse mossa era tutt’altro che remoto.
Guardai l’insieme delle nuvole in cielo e ci trovai una sorta di punto di fuga; mi posizionai quindi in modo da far coincidere la direzione del tronco pietrificato di fronte a me, con la direzione immaginaria di quelle nuvole sottili.
Chiusi il diaframma per garantire all’immagine la profondità di campo necessaria per avere tutto il tronco sufficientemente a fuoco e scattai diverse immagini dalla stessa posizione, sperando che almeno una non risultasse mossa.
Dati tecnici
- Data: 23/01/2018
- Corpo macchina: Nikon D4
- Obiettivo: Nikkor 17/35 f 2,8
- Lunghezza focale al momento dello scatto: 17 mm
- Apertura diaframma: F 14
- Tempo otturatore: 1/250 sec.
- Compensazione esposizione: 0
- Sensibilità sensore: ISO 200
- Modo di ripresa: A (priorità di diaframmi)
VIAGGI FOTOGRAFICI di Davide Pianezze: