L’epoca geologica attuale viene definita Antropocene, perché l’ambiente terrestre è condizionato dagli effetti dell’azione umana (Anthropos). Uno dei marcatori dell’impatto dell’uomo sul pianeta è costituito dalla plastica, un materiale artificiale inventato attorno al 1860 e che dal 1950 circa ha cominciato a essere prodotta in centinaia di milioni di tonnellate, fino a invadere ogni angolo della Terra e a contaminare ogni forma vivente. Minuscoli frammenti di plastica si trovano negli animali, nelle calotte glaciali remote, negli oceani e persino nel nostro corpo.
Una sconcertante sorpresa è arrivata ora da una ricerca pubblicata su Science Advances, “Downward migrating microplastics in lake sediments are a tricky indicator for the onset of the Anthropocene”, che ha analizzato campioni di sedimenti provenienti da tre diversi laghi della Lettonia – Seksu, Pinku e Usmas – per vedere fino a che profondità fossero penetrate le microplastiche.
I risultati hanno mostrato che le particelle più piccole hanno viaggiato più in profondità nel fango, raggiungendo strati depositati prima del boom mondiale della produzione di plastica all’inizio degli anni Cinquanta.
Questa scoperta mette in crisi la proposta fatta da alcuni geologi di considerare la presenza di plastica negli strati di terreno come punto di partenza geologico adatto a definire l’inizio ufficiale dell’Antropocene.
«La presenza di plastica negli strati rocciosi, infatti, sarebbe un indicatore inaffidabile della proliferazione della plastica nella società, considerata la sua capacità di infiltrarsi perfino negli strati più profondi, storicamente precedenti la sua proliferazione» affermano l’ecologista Inta Dimante-Deimantovica dell’Istituto lettone di ecologia acquatica.
Negli strati di terreno campionati dai ricercatori, datati dall’epoca moderna fino ai primi anni del 1700, le particelle di microplastica sono state trovate nei campioni di tutti i siti. I tipi di particelle di microplastica includono poliammide (usata nel nylon), polietilene (spesso presente negli imballaggi), poliuretano (usato nelle schiume e nelle fibre) e acetato di polivinile (presente nelle colle).
Lo studio dimostra che le minuscole particelle sono molto più invasive di quanto avessimo mai pensato.
«Si stima che solo il 9% circa di tutta la plastica prodotta venga riciclata e che il 12% venga incenerito, il che porta a concludere che oltre 6.000 milioni di tonnellate di rifiuti plastici hanno il potenziale di disperdersi nell’ambiente e di incorporarsi nei cicli naturali e nelle catene alimentari» concludono i ricercatori.
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