Forse non tutti sanno che dalla pianta a noi nota con il nome di Taraxacum officinalis, o Dens leonis, possiamo ricavare un prezioso alleato per la nostra salute: il “miele” di Tarassaco.
Si tratta in realtà di un preparato prodotto dall’uomo, e non dalle api, che ci prendiamo la licenza di chiamare “miele” per via della consistenza mielosa e per le sue virtù benefiche.
Chi è il Tarassaco
Questa pianta appartiene alla famiglia delle Asteriacee ed è il risultato di un ibrido di diverse specie provenienti in origine dalle regioni asiatiche. Grazie alla sua strordinaria capacità di disperdere i semi con il vento si è riprodotta in maniera infestante un po’ ovunque.
Dal fiore giallo oro che compare da maggio a settembre si forma un “pappo” piumoso, che disperde nell’aria una miriade di semi attaccati a minuscoli “ombrellini” che percorrono in volo anche svariati chilometri.
Le foglie glabre, lanceolate e seghettate possono essere consumate come insalata depurativa.
Il rizoma (radice), opportunamente essiccato, torreffatto e triturato si trova ancora in commercio con il nome di “cicorio” e può sostituire il caffè anche in moka. Per chi non può bere caffè perché affetto da cardiopatie e ipertensione, il cicorio è una valida alternativa.
Attualmente la pianta trova impiego come depurativo epatico, detossificante, diuretico, blando lassativo, coadiuvante nelle diete dimagranti.
Come raccogliere i fiori
Per preparare il miele di tarassaco si utilizzano i fiori completamente aperti, solo il capolino, senza stelo.
Se vi accingete a raccoglierli, tenete presente che il Tarassaco è una “stazione meteorologica” biologica: fiore aperto=bel tempo, fiore chiuso=brutto tempo.
A questo proposito, se vi piace fare meditazione zen, osservare un fiore di tarassaco in una giornata di tempo variabile è uno spettacolare esercizio!
Se non volete rischiare di correre da un fiore all’altro come un’ape impazzita, coglieteli quando c’è sole pieno perché il fenomeno di apertura-chiusura dei fiori avviene in un tempo brevissimo.
Una volta recisi, se messi al buio, i fiori si richiudono nel medesimo breve tempo, per cui non coglietene troppi e lavorateli immediatamente.
Utilizzate per la raccolta dei cesti capienti e piatti. Disponete i capolini a strati, inframezzandoli con carta assorbente perchè sono molto delicati e perdono il lattice.
Munitevi di guanti se non volete che le mani vi restino macchiate di marrone per parecchi giorni.
Preparazione del “miele” di Tarassaco
Occorrente:
- 500 grammi di fiori di tarassaco
- 1 litro di acqua
- 1,5 chilogrammi di zucchero
- 2 limoni
Le comari più sofisticate usano ripulire il fiore dalla parte verde per ottenere un miele più pregiato e utilizzano solo i petali. Procedimento che richiede parecchio tempo e pazienza.
Potete eliminare anche la parte verde aiutandovi con forbici e pinzette. A mio avviso questo passaggio si può saltare…
Immergete i fiori nell’acqua bollente e lasciate sul fuoco circa 1 ora.
Spegnete il fuoco, unite i limoni tagliati a pezzi e fate riposare il composto fino a completo raffreddamento (il procedimento può durare anche tutta la notte).
Strizzate bene con le mani la poltiglia di fiori in modo da estrarne tutto il succo, filtrate con carta assorbente e rimettetelo sul fuoco.
Aggiungete al succo lo zucchero e fate restringere fino a consistenza mielosa.
Per verificare la consistenza perfetta fate la ‘prova del piattino’, la medesima che si usa fare con le marmellate. Si tratta di prelevare un cucchiaino di composto dalla pentola e farlo raffreddare su un piattino di ceramica, inclinandolo lievemente per valutare la fluidità.
Potete aggiungere nella fase finale spezie a piacimento come zenzero, polvere di cannella, chiodi di garofano, peperoncino.
In questo modo otterrete un prodotto sofisticato, da usarsi come mostardina, per accompagnare arrosti di maiale, piatti a base di selvaggina e formaggi.
Usato da solo, il “miele” di Tarassaco è, invece, un ottimo dolcificante ricco di proprietà depurative e detossificanti da utilizzare per edulcorare le bevande soprattutto nei cambi di stagione: autunno e primavera.
Si può anche assumerlo puro, in alternativa allo sciroppo per la tosse, come mucolitico, per lenire i disturbi delle vie aeree e combattere la gola secca e irritata.
Tanti nomi per un solo fiore
Della parola Tarassaco nei testi greci non è stata trovata traccia. Da Plinio e Teofrasto la pianta era indicata col nome di: Aphàke o Hedypnoϊs.
Successivamente, fino al tardo Medioevo era conosciuta con molti nomi di origine popolare, tra i più usati troviamo: Dente di leone, Dente di cane, Soffione, Cicoria selvatica, Piscialetto, Grugno di porco (cfr. Andrea Mattioli)
Adam Lonitzer (Lonicerus), un botanico vissuto a Francoforte nel XV secolo, utilizzò il nome Taraxacum convalidato in seguito da Linneo nei sistemi di classificazione delle piante.
La denominazione Taraxacum data dagli Apotecari alla fine del Medioevo ha origine alquanto controversa. Alcuni autori la attribuiscono al greco, altri all’arabo.
In realtà a quei tempi era pratica comune tradurre testi medici e botanici dall’arabo, che a loro volta erano stati tramandati dal greco o dal persiano. Questo perché molti libri antichi purtroppo andarono perduti.
Secondo Treccani il termine deriva dall’arabo tarakhshaqūn con cui veniva indicata la ‘cicoria selvatica’.
Si trova traccia della traduzione di taraxacum da tarakhshaqūn nei libri di Gerardo da Cremona, famoso traduttore del 1100, che si occupò del trattato di medicina di Abū Bakr Muḥammad ibn Zakariyyā al-Rāzī, il grande medico persiano vissuto nel 900.
È possibile che l’etimologia di tarakhshaqūn, derivi a sua volta dal greco. Tra le ipotesi più accreditate vi è quella che derivi dal verbo “tarasso” che significa “io guarisco”, chiara allusione alle molteplici proprietà curative dei succhi lattiginosi contenuti nel rizoma.
Altri studiosi lo associano alla voce greca taraxis (disturbo degli occhi) che fa riferimento a una forma di infiammazione oculare, per guarire la quale veniva usato il succo di questa pianta.
Più genericamente l’origine potrebbe derivare da taraxos (malattia, turbamento o scompiglio) unito ad àkos (rimedio) in virtù delle sue benefiche proprietà, capaci di ripristinare l’ordine nell’organismo affetto da qualche disturbo.
Il nome Dens leonis, dente di leone, si riferisce invece alla forma seghettata delle foglie, simile ai denti del felino.
Fonti:
Gerardo da Cremona – Liber medicinalis Almansoris – trad. 1170 d.c.
Mattioli Andrea – I discorsi di M. Pietro Andrea Matthioli … nelli sei libri di Pedacio Dioscoride Anazarbeo della materia medicinale. – In Venetia : Appresso Vincenzo Valgris – 1568
Piterà F. – Taraxacum officinale. Anthropos & Iatria.- Edizioni Nova Scripta – Anno V- Numero 4 2001.
Riva Ernesto – Non far di ogni erba un fascio – Ed. Tassotti – 1990
riproduzione consentita con link a originale e citazione fonte: rivistanatura.com