Lo scorso fine settimana durante una visita alla riserva naturale Le Cesine, in provincia di Lecce, ho rivisto dopo tanto tempo una vecchia conoscenza, Antonio Canu, oggi presidente Wwf Oasi. Tanti ricordi bellissimi sono tornati a galla, ma questo tuffo nel passato è stata anche l’occasione per riflettere su quante cose sono cambiate in questi ultimi anni nel mondo dell’ambientalismo, e non sempre in meglio.
Quando nel 1989 lasciai il Wwf – dopo anni di volontariato e tre di lavoro – l’associazione stava vivendo una stagione a dire poco entusiasmante. I soci crescevano in modo vertiginoso e l’autorevolezza era alle stelle. Ogni giorno era possibile leggere sui più importanti quotidiani nazionali il parere dei dirigenti del Panda, che venivano chiamati in causa non solo per questioni inerenti la conservazione della tale specie animale o vegetale, ma più in generale per analizzare lo stato dell’ambiente italiano e mondiale. Gianfranco Bologna faceva conoscere agli italiani Lester Brown e il lavoro del Worldwatch Institute, Fulco Pratesi spiegava come era possibile vivere assecondando uno stile di vita coerente ed ecosostenibile, concetti ancora poco diffusi all’epoca.
Anche la stampa e i media locali prestavano attenzione al lavoro che centinaia, migliaia di volontari svolgevano nelle regioni e nei comuni d’Italia per contrastare l’ennesimo abuso edilizio o preservare gli ultimi lembi di una vecchia foresta. Era il periodo delle grandi “campagne” e delle sottoscrizioni che portavano danari nelle casse del Wwf da spendere nelle attività di tutela e diffondevano la popolarità del sodalizio. Agli inizi degli anni Novanta, l’associazione contava più di 300mila soci.
Le battaglie più difficili e complesse erano quasi sempre condotte con altri due protagonisti dell’ambientalismo nostrano, Italia Nostra e Legambiente, cui spesso si aggiungevano Greenpeace e Lipu. Tutti questi movimenti raggiunsero il massimo della popolarità proprio in quel periodo.
Oggigiorno la situazione è profondamente cambiata. Di Italia Nostra non si sente quasi più parlare, credo che la maggior parte dei giovani non ne conosca neppure l’esistenza. Legambiente sopravvive più che altro grazie al fatto che sempre avuto una visione più “politica” delle questioni ambientali. Il Wwf naviga in cattive acque finanziarie, tanto che nel 2016 ha chiuso tutte le sedi regionali e gli uffici nazionali di Milano; i soci oggi sono circa 60 mila e i dipendenti meno di un terzo rispetto al momento di maggiore successo.
Come è stato possibile disperdere un patrimonio tanto grande di competenze ed entusiasmo? Le ragioni sono molteplici e certamente riconducibili anche ai mutamenti più generali che hanno investito la società italiana. Tuttavia non si può fare a meno di notare che in altri Paesi gli ambientalisti continuano a godere di ampio credito e che anche da noi esiste una realtà in controtendenza: il Fai – Fondo Ambiente Italiano, che emergeva dall’anonimato proprio negli anni in cui Wwf, Italia Nostra e Legambiente spopolavano, oggi è una realtà solida, gode di un seguito sempre maggiore e ha rafforzato in modo evidente la sua popolarità. La Fondazione conta oltre 150 mila iscritti, impiega 216 persone – di cui quasi il 50 per cento ha meno di 40 anni – ed è presente sul territorio con 120 Delegazioni, 92 Gruppi Fai e 86 Gruppi Fai Giovani con oltre 7.500 volontari.
C’è materiale su cui riflettere. Il Fai, pur avendo condiviso importanti battaglie con le altre associazioni, si è tuttavia distinto fin dalle origini per uno spirito più pragmatico. In sintesi, non solo proteste, ma anche proposte. Proposte che nel corso di 42 anni hanno permesso di gestire e valorizzare quasi 60 beni fra monumenti e luoghi naturali, che sono stati visitati da 8 milioni di persone, 750 mila solo l’anno passato.
L’attuale presidente del Fondo Ambiente Italiano, Andrea Carandini, in più di un’occasione ha elogiato l’iniziatore dell’avventura, colui che per due decenni ne è stato pensiero e muscolo, ossia l’architetto Renato Bazzoni: «Aveva la capacità di intraprendere fatti e non solo di denunciare misfatti», ha detto una volta Carandini. Queste parole sintetizzano in modo mirabile la stessa essenza del Fai, che già a metà degli anni Settanta comprese che in Italia non erano più sufficienti l’azione di denuncia, la protesta e l’indignazione. Con spirito pragmatico Bazzoni mise la cultura accanto alla disponibilità economica, sperando che in qualche modo avvenisse un’impollinazione incrociata. E il seme attecchì.
Di lui personalmente ricordo anche il contagioso entusiasmo e l’inconsueta generosità. Prova di quest’ultima resta il fatto che, a differenza di altri che hanno usato l’impegno ambientalista come trampolino di lancio per approdare ai più confortanti e soprattutto remunerativi scranni del Parlamento o dei consigli di amministrazione di grandi società pubbliche e private, Bazzoni è rimasto fino all’ultimo giorno della sua esistenza seduto alla scrivania della sua amata creatura, il Fai appunto. Con il suo stipendio modesto, la sua utilitaria, il suo guardaroba dimesso e la sua semplice abitazione, che guarda caso era proprio di fronte gli uffici della Fondazione, quasi a volere perpetuare quella consuetudine di casa-bottega propria dei lavoratori indefessi, degli uomini che sanno intraprendere.
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