Esco dall’aeroporto di Wamena e cerco un taxi per raggiungere l’hotel prenotato telefonicamente alcuni mesi prima dall’Italia. La comunicazione con la struttura dove avrei pernottato (l’unica apparentemente decorosa della cittadina) era stata la prima difficoltà incontrata per organizzare il viaggio in Papua Indonesia.
Dopo essermi arreso alla possibilità di ricevere una risposta alle mie numerose email avevo deciso di tentare la chiamata diretta. Dall’altra parte della cornetta ricevevo però solo repliche in indonesiano, intervallate da sporadici “yes” e “no”.
La situazione non si presentava delle più incoraggianti: fin dall’inizio sapevo che avrei avuto conferma della mia camera solo dopo averla occupata fisicamente.
Salgo sul taxi e, per evitare incomprensioni linguistiche, mostro all’autista il foglio che conservo in tasca con indicati il nome e l’indirizzo dell’hotel. Dal finestrino scorrono immagini che alternano un’abbozzata tendenza alla modernità a profonde tracce di tradizioni antiche.
Ci fermiamo a un incrocio per cedere il passo a un camion. Sfreccia di fronte a noi con il cassone carico di uomini dai volti dipinti che stringono tra le mani lance, archi e frecce. Hanno sguardi seri, severi, si voltano in ogni direzione come fossero in cerca di qualcosa o come se stessero scappando da qualcuno. Vorrei chiedere al taxista cosa stia accadendo, ma purtroppo non parla inglese.
Arrivato in hotel scarico i bagagli e mi dirigo verso la reception. Come previsto, anche la ragazza al bancone non ha molta dimestichezza con l’inglese, ma in qualche modo riesco a farmi capire e a farmi consegnare le sospirate chiavi della camera. Per raggiungere il primo piano devo salire le scale al lato opposto di un cortiletto interno alla struttura dove un uomo, dai lineamenti evidentemente locali, sta parlando al telefono in un inglese sorprendentemente chiaro e corretto.
Occupata la camera, lascio i bagagli e ridiscendo le scale. Mi avvicino all’uomo, che intanto ha terminato la sua chiamata, mi presento e gli chiedo se è di Wamena e se conosce qualcuno in grado di fornirmi informazioni per raggiungere la regione dei Korowai, dove voglio arrivare nei prossimi giorni. Lui si presenta a sua volta e aggiunge di essere una guida locale, ma non esperto della regione dove sono diretto. Ha però un amico che abita da quelle parti e che forse potrà aiutarmi. Senza esitare mi detta un numero di telefono che mi dice di contattare al più presto facendo il suo nome. Al termine della nostra chiacchierata mi propone di unirmi a una coppia di turisti tedeschi interessati a visitare un villaggio di etnia Dani non lontano da Wamena. L’esperienza sarà sicuramente molto turistica, ma vista la sua cortesia nell’offrimi un contatto per me prezioso, accetto l’offerta e confermo l’appuntamento alle 8 del mattino successivo.
Fuori dall’hotel ci attende puntuale un piccolo veicolo. Saliamo a bordo e imbocchiamo la vallata di Baliem, dove mi sento immediatamente a mio agio per via di una curiosa somiglianza morfologica con la val di Susa. Lasciamo il fondo valle e percorriamo una strada tortuosa che risale le pendici della montagna ad est, fino a raggiungere un piccolo villaggio. Veniamo accolti da donne e bambini che festeggiano il nostro arrivo girandoci intorno e scrutandoci incuriositi, forse in cerca di qualcosa come caramelle e doni che ovviamente abbiamo portato con noi. Consegnati quaderni e matite colorate, seguiamo la nostra guida che ci dirigiamo verso il sentiero che porta al centro del villaggio.
Le capanne sembrano autentiche, o perlomeno non sono costruite appositamente per essere visitate dai turisti, lo testimonia il disordine del loro interno. È però evidente che tutti i presenti sono abituati a ricevere visite da parte di stranieri. Qualcuno di loro ci mostra le sue lance e si mette in posa per farsi fotografare. Non immortalare la scena significherebbe deludere le loro aspettative e il loro entusiasmo, quindi scatto qualche foto che mostro anche ai bambini certo di stimolare il loro interesse. Poco dopo alcune donne si presentano con i prodotti di artigianato locale che trasportano in una cesta.
Approfitto di quel momento di distrazione da parte di tutti i presenti per isolarmi e andare in cerca di qualcosa che non ho ancora trovato. Al lato opposto del piazzale incontro un uomo che non aveva partecipato al rito di benvenuto e che non si era messo in posa per farsi fotografare. È immobile, rannicchiato, abbraccia le sue gambe, mi osserva. Ricambio lo sguardo. Tra noi non c’è alcun gesto evidente d’intesa, ma i nostri occhi iniziano a comunicare.
Afferro la macchina fotografica con il teleobiettivo e scatto alcune foto attratto dal suo sguardo intenso continuamente rivolto verso me. Poi abbasso l’apparecchiatura fotografica e accenno a un saluto con la mano, al quale vengo ricambiato con un gesto quasi impercettibile della testa. La genuinità è ciò che cerco di cogliere in ogni situazione, è ciò che mi trasmette maggiori emozioni, è ciò che a volte si può incontrare anche quando le condizioni del momento sembrano essere tutt’altro che naturali. A volte è necessario (o sufficiente) isolarsi per poter vedere ciò che davvero ci circonda.
Il momento dello scatto
Quando mi trovo in situazioni analoghe porto sempre con me due corpi macchina: uno con un obiettivo grandangolare (17/35 – f2,8) per le situazioni più ravvicinate e l’altro con un teleobiettivo (70/200 – f2,8) che sfrutto principalmente per i ritratti. Il sole era coperto dalle nuvole che diffondevano con morbidezza la luce: situazione che mi convinse a lasciare il flash nello zaino. Individuato il mio soggetto preferii non avvicinarmi troppo per non risultare invadente.
Non si sarebbe comunque trattato di una foto “rubata”, in quanto i nostri sguardi si erano già incrociati, ma temevo che l’uomo potesse cambiare la sua espressione, come spesso accade con chi si “prepara” per farsi fotografare. Tutto restò invariato, come nel primo istante in cui lo vidi. La luce era perfetta, come lo sfondo scuro della sua capanna. Inquadrai l’immagine in modo da inserire tutti gli elementi che mi interessavano. A causa della luce debole impostai una sensibilità piuttosto elevata (ISO 500), confidando nelle caratteristiche specifiche del sensore della Nikon D3s. Poi aprii il diaframma a f 3,5. Infine calcolai l’esposizione impostando 1,7 stop di sottoesposizione, in modo da ottenere un’immagine tendenzialmente “in chiave bassa”, così com’era nella realtà. Il tempo di scatto di 1/500 di secondo che ne conseguì risultò sufficientemente rapido per scongiurare l’effetto mosso.
Dati tecnici
- Data: 05/02/2018
- Corpo macchina: Nikon D3s
- Obiettivo: Nikkor 80/200 f 2,8
- Lunghezza focale al momento dello scatto: 155 mm
- Apertura diaframma: F 3,5
- Tempo otturatore: 1/500 sec.
- Compensazione esposizione: -1,7
- Sensibilità sensore: ISO 500
- Modo di ripresa: A (priorità di diaframmi)
VIAGGI FOTOGRAFICI di Davide Pianezze:
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