Domenica 22 giugno, cinquecento turisti si sono trovati sbarrati gli scavi di Pompei: “Chiusi per assemblea sindacale” avvisava un cartello. Era già accaduto qualche giorno prima, ed erano stati migliaia gli aspiranti visitatori provenienti da tutto il mondo a essere lasciati in attesa sotto il sole campano.
Pompei, che a lungo è stata la più efficace narrazione della nostra storia e della nostra civiltà, è diventato il simbolo del malgoverno e dello sfascio di un Paese stanco. Sbaglia, però, chi crede che l’abbandono del prezioso sito archeologico sia iniziato di recente. La prima volta che ho visitato gli scavi era il 1984 e ancora oggi ricordo con amarezza il viaggio fra le rovine malinconiche. Già allora si percepiva il senso di desolazione e noncuranza a cui era pericolosamente esposta l’intera area. La precarietà si intuiva di fronte alle deboli transenne che avrebbero dovuto indicare il divieto di accesso ad alcuni ambienti a rischio di crollo, oppure quando si palesavano i danni piccoli e grandi provocati dagli atteggiamenti irresponsabili di un turismo stolto e dalla totale mancanza di controlli e vigilanza. Ricordo bene gli sguardi increduli dei visitatori stranieri di fronte a tanto deperimento, lo sdegno evidente per i cumuli di rifiuti abbandonati qua e là, lo stupore compassionevole per i cani randagi che si aggiravano fra le macerie.
Nonostante la situazione sia nota a tutti, dopo ogni sciopero, assemblea selvaggia o crollo, assistiamo all’indecorosa passerella di politici che sfilano davanti alle telecamere con i volti carichi di sdegno. Eppure tanti di loro stanno in Parlamento e frequentano le stanze del potere da un’infinità di anni. Anni durante i quali il degrado di Pompei è avanzato nella più assoluta noncuranza. Un Paese davvero preoccupato per le proprie sorti, e non avvelenato dall’odio e pervaso dal malvezzo dell’immoralità, anziché trovare il solito capro espiatorio si interrogherebbe su quale manutenzione ordinaria e straordinaria sia stata attuata a Pompei negli ultimi sessant’anni e quale vigilanza il Ministero per i Beni culturali abbia esercitato sugli scavi e più in generale sull’immenso patrimonio nazionale. Invece la ricorrente e beffarda mediocrità dei ministri dei Beni culturali italiani, con l’esclusione di Antonio Paolucci, ha partorito solo montagne di vuote dichiarazioni, promesse, vaniloqui.
I governi repubblicani hanno trattato la cultura come l’ultima delle loro priorità. Un parcheggio per figure maledettamente modeste. Ma di tutto questo non è mai importato nulla a nessuno. L’agonia dei nostri tesori artistici e paesaggistici non ha tolto il sonno ai premier che si sono succeduti nei decenni promettendo ogni volta rapidi interventi; né a gran parte degli italiani, sempre pronti a indignarsi, ma sempre lontani da ogni responsabilità.
Pompei continua a sgretolarsi. Rassegniamoci, non cambierà nulla. Chi ha visitato gli scavi ne conosce la provvisorietà ineluttabile. Una provvisorietà che non si manifesta solo nel senso di abbandono, ma che si tocca con mano nella prospettiva nord, dalla quale incombe sorniona la mole del Vesuvio. Un sinistro presagio che ricorda un passato tragico e un destino di desolazione.
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