Dalle luci della ribalta della Città dei Sassi l’immaginazione ci spinge con forza nel passato, fatto di tradizioni e leggende appartenenti a un mondo squisitamente contadino. Anche le piante portano con sé una storia millenaria e ci aiutano a ricostruire un tempo che non c’è più, ma che possiamo ricordare e conoscere. E così il paesaggio diventa teatro di uno spettacolo senza fine, dove i protagonisti sono gli elementi della natura che parlano al mondo e ai loro spettatori. Attraverso un interessante lavoro “Le piante dei padri tra memoria e oblio” due studiosi lucani, Giuseppe Gambetta e Ciccio Loschiavo, hanno ridato la scena a quelle valenze naturalistiche che contraddistinguono il territorio materano e molte altre zone della Basilicata. Per non dimenticare.
Il libro, omettendo una descrizione più prettamente scientifica, dà molto spazio alle notizie di carattere etnologico e di costume locale, perché ‘le piante dei padri’ sono quelle che hanno accompagnato la loro storia, che sono state utilizzate per nutrirsi e nutrire il loro bestiame, per curare corpo e anima. Ogni singolo vegetale contiene in sé un elemento di cultura popolare, fatta di avvenimenti realmente accaduti e superstizioni, mitologie e credenze, che ne va a comporre la sua trama.
L’opera diventa così un viaggio nel mondo naturale e culturale di quest’area della Basilicata, tra le sue zone umide, spine dai fiori colorati che emanano profumi selvatici (cardi e altre piante spinose utilizzate per delimitare i ricoveri di mandrie, greggi e come chiusura di iazzi), siepi che spuntano dai muretti a secco (asparagi, rovi, robbia selvatica), pagliai di paglia (luoghi utilizzati dai piccoli contadini per riparare l’asino), e dimore rurali fatte di materiale povero quali pali di legno di quercia, querciolo, tamerice, canniccio, paglia, argilla seccata. E scopriamo maestranze e usanze artigianali che nei secoli si sono tramandate fino quasi a scomparire, come la tessitura, l’artigianato del legno e la manifattura del carbone.
E la curiosità si accende quando gli autori entrano nel dettaglio della narrazione sulle piante selvatiche e sulle loro caratteristiche medicali e alimentari. Apprendiamo che circa tremila specie vegetali assicurarono la sopravvivenza dell’Homo sapiens, quando l’uomo viveva ancora di caccia e raccolta. Con la Rivoluzione del Neolitico e la scoperta dell’agricoltura, le specie utilizzate si ridussero drasticamente fino a cinque, secondo Fernand Braudel il quale le chiamò ‘piante di civiltà’ (tra queste frumento, riso, mais e poche altre), avviandone il processo di domesticazione.
Molte di quelle tremila erbe selvatiche però hanno continuato ad essere utilizzate divenendo pietanze gustose (asparago, bietola selvatica, borragine, cardo, cicoria, granoturco, fava…), aromi per cibi tipici dai profumi inconfondibili (origano, finocchio selvatico, timo arbustivo, cappero, lauro, menta, prezzemolo, basilico, rosmarino, salvia triloba…), decotti per curare, o calmare dolori o mali psicologici (melissa, Malva sylvestris, euforbia adriatica, papavero da oppio dal colore appariscente) o per rinforzare i capelli e combattere la forfora (ortica) o per curare la tosse (Glycyrrhiza glabra, la più comune liquirizia). Alcune di esse nei secoli divennero ingredienti per pozioni d’amore o contro il malocchio. Lo racconta magistralmente anche Carlo Levi nella sua opera Cristo si è fermato a Eboli, ambientata ad Aliano, piccolo borgo del materano. Racconti di tempi atavici e superstiziosi.
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