Il museo di Zoologia dell’università di Padova è un piccolo, prezioso scrigno di rarità e curiosità del mondo animale che ogni appassionato di natura dovrebbe vedere almeno una volta nella vita. Oltre alle raccolte storiche di ragni di Giovanni Canestrini (uno dei primissimi traduttori di Charles Darwin in Italia) e di pesci, rettili e molluschi provenienti da antiche collezioni di più di due secoli fa, spiccano alcuni reperti più unici che rari: c’è lo scheletro di un povero elefante indiano che fu protagonista, esattamente due secoli fa, di una drammatica fuga per le vie di Venezia e fin dentro alla chiesa di S. Antonio.
Era il carnevale del 1819, e il pachiderma era stato condotto in città come attrazione per il pubblico, insieme ad altri animali esotici. Spaventato per il clamore della folla, per le salve di cannone utilizzate per salutare l’imperatore e per i continui maltrattamenti, l’animale si ribellò e fuggì per le calli della Serenissima e dentro la chiesa, spaccando l’acquasantiera e rifugiandosi dietro alle panche dei fedeli. Dopo decine di fucilate e addirittura un colpo di cannone, il povero elefante venne alla fine abbattuto. Lo scheletro presenta ancora alcuni fori dei proiettili sparati dalle guardie austriache durante l’inseguimento.
Nelle sale del museo si possono inoltre trovare i resti di un capodoglio, spiaggiatosi nell’alto Adriatico in prossimità di Fano nel 1767. Questo è uno dei rarissimi casi di spiaggiamento di questo animale registrati in Italia. A confermare la data dell’evento, sui resti ossei dell’animale sono stati incisi anno e luogo del ritrovamento. Ma l’autentico “pezzo forte” dell’esposizione è una tartaruga liuto, catturata da alcuni pescatori nel 1760 a circa trenta chilometri da Roma. L’animale venne imbalsamato e donato al papa Clemente XIII, che decise a sua volta di regalarlo all’Università di Padova. Il pontefice ben conosceva l’animale, dato che un altro esemplare pescato pochi anni prima era stato donato all’Università di Bologna dal suo predecessore, Benedetto XIV.
Forse il regalo all’ateneo padovano era un modo per dimostrare di essere ugualmente generoso. Una volta giunto a Padova, l’esemplare venne disegnato e descritto in dettaglio dallo zoologo Domenico Agostino Vandelli, che inviò tutte queste informazioni in una lettera indirizzata a Carlo Linneo. Lo scienziato svedese aggiunse tale specie, indicata oggi col nome scientifico Dermochelys coriacea, nella dodicesima edizione del suo Sistema Naturae. Per più di due secoli la descrizione dell’animale venne attribuita a Linneo, e solo nel 1980 questa venne riassegnata, giustamente, a Vandelli.
Ma perché questo esemplare è tanto importante? Perché si tratta dell’olotipo della specie, ossia di quell’esemplare, conservato in una collezione nota, che venne utilizzato inizialmente per descrivere la specie. E per un animale iconico come la tartaruga liuto, la più grande tartaruga conosciuta e diffusa in tutti i mari del mondo, non è certo cosa da poco.
Ma nell’identificazione di questo animale, oltre a questo ritrovamento e al dono fatto dal pontefice c’è anche il lavoro di alcuni scienziati italiani, poco conosciuti ma molto meritevoli: Domenico Vandelli, come abbiamo visto, che si occupò di studiare e descrivere l’animale, ma anche Antonio Vallisneri senior (1661-1730) e junior (1708-1777), padre e figlio. Il primo ebbe una vastissima produzione letteraria e si dedico a innumerevoli campi della biologia e anche della neonata geologia, aderendo al pensiero galileiano.
Il figlio fu anch’egli un valido scienziato e, tra le altre cose, fu colui che raccolse e riunì buona parte della produzione letteraria del padre e donò la sua vasta collazione di reperti di Storia Naturale all’Università di Padova, aiutando così la nascita di un piccolo ma preziosissimo museo che ancora oggi è in grado di suscitare meraviglia nei suoi visitatori.
riproduzione consentita con link a originale e citazione fonte: rivistanatura.com