Il lupo è tornato. Frase sussurrata con ancestrale timore da alcuni, annunciata con entusiasmo da altri; con interesse in alcuni ambiti tecnici, con scoraggiamento o rabbia in altri.
di Anna Sustersic
In Trentino la frase suona spesso pesante come una minaccia. E se da alcune aree d’Italia il lupo non è mai sparito, qui un’assenza di oltre 150 anni rende doppiamente pesante la presenza degli oltre 17 branchi, più o meno stabili, che ormai frequentano il territorio, condivisi con le regioni confinanti, ma che in breve tempo, sono quasi certamente destinati ad aumentare. Perché? C’è spazio e ci sono prede in abbondanza. Esattamente le ragioni – unite al divieto di caccia – che dopo una lunga assenza lo hanno fatto tornare. Niente di cui lamentarsi: è il sintomo di una buona gestione del territorio.
Il panorama legislativo definisce confini ben definiti per la gestione: voluto, temuto, odiato o desiderato, di fatto, il lupo c’è e, stando alla folta selva di normative nazionali, europee e internazionali che regolano e tutelano la presenza di questi animali, ce lo teniamo. “Si parte dal ‘Decreto Natali’1, primo atto formale che protegge il lupo estromettendolo dall’elenco degli animali nocivi e vietandone la caccia” spiega Enrico Ferraro, tecnico faunista dell’Associazione Cacciatori Trentini e uno dei principali esperti del lupo sul territorio “fino alle norme dei giorni nostri come la Convenzione di Berna2, in cui il lupo risulta ‘fauna rigorosamente protetta’, e la più nota Direttiva “Habitat”, in cui il lupo – per l’Italia -compare in ben due allegati: Allegato II3, e allegato IV4”.
Muovendosi in uno spazio così ben confinato, dove anche l’abbattimento in deroga – che, come specifica Ferraro “non significa caccia al lupo, controllo o contenimento della specie, ma abbattimento che deroga dal principio generale di conservazione della specie” – è difficilissimo da ottenere, la cosa migliore è semplicemente accettare che il lupo faccia parte del nostro futuro e attivarsi – pretendendo che la politica faccia altrettanto – per rendere questa coesistenza il più accettabile, e ben gestita, possibile. Da figliol prodigo sgradito a sfida intrigante, il lupo va trattato per quello che è: una delle tante variabili che la gente di montagna deve tenere in considerazione.
La strategia è semplice: lavoro di squadra, competenza e conoscenza. Ognuno con i suoi strumenti, ognuno parte della soluzione.
Cacciatori e lupi: la strategia trentina
In Trentino i cacciatori sono circa 6000. Pochi hanno una conoscenza capillare del territorio e delle sue specie come i cacciatori. Organizzati in 20 distretti, 209 riserve e altrettanti rettori, e coordinati da un’Associazione dei Cacciatori Trentini (ACT) che conta 31 guardiacaccia, 5 tecnici faunistici e un direttore tecnico rappresentano una vera e propria legione di ‘sentinelle del territorio’. Antagonisti del lupo per antonomasia, i cacciatori trentini – avendo per convenzione la delega alla gestione venatoria delle principali specie di ungulati – hanno in realtà competenze e conoscenze tali da diventare efficaci ‘sentinelle di lupi’ con ben altre armi che quelle a spalla. E su questo ha scommesso l’ACT, spiega il Presidente Stefano Ravelli “la posizione di ACT rispetto al lupo è stata dall’inizio quella di collaborare attivamente e fattivamente con l’ente pubblico nella raccolta dati utili a definire la consistenza e la distribuzione dei lupi sul territorio”. Conoscenza quindi, innanzi tutto. Naturalmente non solo fine a sé stessa “il lupo pone dei problemi alla nostra categoria che animali come l’orso non ponevano: che impatto avrà sugli ungulati? Questa risposta sarà sempre più necessaria alla pianificazione della gestione venatoria” prosegue Ravelli “e a questo proposito stiamo cercando di acquisire dati e impostare un lavoro di studio che ci porti ad avere informazioni scientificamente consistenti, utili anche alla gestione del territorio”. Tutti invitati, quindi, a contribuire, segnalando predazioni, inviando foto e video, e segni di presenza. Tutte informazioni che vengono poi verificate dagli operatori professionali dell’associazione. Ma non è tutto: i guardiacaccia sono anche stati coinvolti nel programma di monitoraggio nazionale del lupo, primo sforzo a scala paese per definire la consistenza della popolazione italiana.
Conoscenza, facilità a muoversi sul territorio e distribuzione capillare sul territorio: questi gli strumenti a disposizione di una categoria che con il lupo può avere un rapporto ben diverso da quello dell’immaginario comune. Formare la categoria in maniera specifica su questa specie, fornire nuove competenze è l’obiettivo di ACT, spiega ancora Ravelli che, come associazione, già pensa a un piano di formazione strutturata sul territorio “compito dell’associazione è guidare a un approccio critico e informato che si basi su una solida conoscenza della specie per comprendere le implicazioni reali che il lupo porta con sé”. Alla base di tutto l’idea che chi ha facilità a raccogliere e fornire informazioni sulla specie, possa promuovere e facilitare la gestione della coesistenza da parte di tutti gli altri. Conoscenza come prima forma di controllo.
Una sfida possibile? Sì, secondo la Toscana
La Toscana ad oggi conta oltre 500 lupi (110 branchi) su un territorio regionale di 23000 km2 e 3668000 abitanti. “La sola provincia di Arezzo (3200 km2) contava all’ultimo censimento di 4 anni fa, 25 branchi che oggi ormai non saranno meno di 30” spiega Marco Apollonio, ordinario di Zoologia presso il Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università di Sassari, fino al 2010 presidente dell’Associazione Teriologica Italiana e membro fondatore della rete europea “Carunet” che si occupa de rapporto tra predatori e prede. Alle spalle 25 anni di ricerche sui lupi, uno dei tecnici più autorevoli a livello nazionale e con un solido profilo internazionale.
Fin dall’inizio tutti i censimenti sono stati svolti in collaborazione con i cacciatori, che da principio hanno accolto con interesse il lavoro di osservazione e studio del lupo. A definire un approccio positivo la peculiare storia venatoria di questa regione “Insieme all’Emilia Romagna, la Toscana è stata la prima regione dell’Italia centro meridionale a far partire la caccia di selezione” spiega Apollonio “e diventare cacciatore di selezione richiedeva una formazione seria e intensa – basti pensare che il tasso di bocciatura ai corsi era del 40/50% – che ha fatto nascere una figura completamente nuova. Chi otteneva l’abilitazione aveva principi generali di ecologia, una buona conoscenza delle specie e, in più, aveva l’obbligo di partecipare ai censimenti”. Il ‘nuovo cacciatore’ entrava organicamente nell’ottica secondo cui non è possibile gestire ciò che non si conosce. Ruolo e conoscenze si espandono rispetto al passato “si apre un mondo fatto di molti altri animali – oltre al cinghiale, l’unico cacciabile fino ad allora – fra cui il lupo, animale che, con un accesso privilegiato al nostro immaginario e un legame forte con la nostra storia, ha fatto subito presa sull’interesse dei cacciatori, spiega Apollonio. “I cacciatori di selezione della Toscana sono stati una fonte incredibile di segnalazioni: indicazioni, telefonate, fotografie filmati che a tutt’oggi continuiamo a ricevere e ci aiutano ad aggiornare la distribuzione del lupo. Addirittura, in provincia di Arezzo è nato spontaneamente un ‘gruppo lupo’ all’interno dell’Unione Regionale Cacciatori Appenninici, decine e decine di cacciatori che partecipavano ai wolfhowling e fornivano indicazioni sulla loro area, non solo quando andavano a caccia e avvistavano un lupo te lo dicevano, ma uscivano apposta per andarlo a vedere”. I cacciatori hanno fornito un supporto fondamentale alla conoscenza della specie in regione. Avere 1500 occhi invece che 10 o 20, come sottolinea Apollonio, è tutt’altra cosa. Inoltre, come spiega Apollonio, un fatto interessante in una regione dove l’accettazione della presenza del lupo rimane fortemente critica, è che, con poche eccezioni, il lupo non è mai stato visto come un antagonista, come il flagello che sottrae ungulati ai cacciatori.
L’enorme mole di informazioni fornite dalla squadra di ‘nuovi cacciatori’, verificate dai tecnici esperti su basi genetiche, fototrappole e wolfhowling, ha avuto una rilevanza fondamentale nel monitoraggio della specie.
Quindi?
Quello dei cacciatori è un esempio di come le competenze specifiche di ogni categoria possano essere utilizzate efficacemente per affrontare il problema proattivamente e contribuire a generare soluzioni per la coesistenza. La motivazione nasce dalla conoscenza. L’impatto del lupo sulle specie preda – e cacciabili – non sembra essere così rilevante secondo i più recenti studi, e questa conoscenza è fondamentale a gettare le basi di un diverso approccio da parte dei cacciatori. “In natura la tendenza è all’equilibrio preda/predatore, e lo dimostra il fatto che ovunque il lupo sia presente, non sono certo scomparse le prede, il cui numero è invece soggetto a molte altre importanti variabili come le condizioni ambientali – stagioni particolarmente difficili -, competizione intra e interspecifica, malattie ed eventualmente una gestione non corretta, ovvero un prelievo eccessivo” spiega Ferraro.
“La sfida ‘professionale’ che il lupo rappresenta per un cacciatore” prosegue inoltre Apollonio “è particolarmente intrigante, viste le caratteristiche intrinseche di questo animale. Sentire un branco ululare, è una grande soddisfazione, ma il riuscire a mettersi nelle giuste condizioni per sentirlo, dà la misura di essere davvero parte dell’ambiente, essere entrati in sintonia con esso al punto da capire bene il proprio ruolo ed essere in controllo di ciò che si sta facendo”.
Come quella dei cacciatori, ogni altra categoria che abbia una qualche relazione con il lupo può, mettendo in campo le proprie competenze specifiche e la passione per il proprio ambiente, diventare strumento attivo e consapevole di coesistenza.
Note
- D.M. 23 luglio 1971
- Convenzione sulla conservazione della vita selvatica e dell’ambiente naturale in Europa, ratificata dall’Italia con la legge n.503 del 08 agosto 1981
- Specie animali e vegetali d’interesse comunitario la cui conservazione richiede la designazione di zone speciali di conservazione (ZSC)
- Specie animali e vegetali di interesse comunitario che richiedono una protezione rigorosa