Cosa sappiamo esattamente del mondo che circonda la produzione di carne? Il primo dato assoluto è che fino alla seconda guerra mondiale la carne veniva consumata raramente. Oggi in media un italiano consuma 80 kg di carne all’anno, contro i 27 kg di quarant’anni fa. Da cinquant’anni a questa parte c’è stato un incremento di pasti a base di insaccati e bistecche del 190%. A proposito di carni bianche la FAO fa sapere che dal 1967 a oggi la produzione mondiale di pollame è aumentata del 700%. Ma in altri paesi i dati sono ancora più spinti. In America si arriva a 125 kg di carne consumata pro capite all’anno, in Australia a 110. Di contro i paesi più “vegetariani” sono la Tanzania, il Ghana, il Mozambico, il Bangladesh. Piace soprattutto la carne di maiale, seguita da quella dei bovini e dei polli, impennata anche per via della crisi. Ci sono però delle differenze. Per esempio le carni italiane parrebbero più sane di quelle “straniere” perché non trattate con ormoni; mentre gli insaccati subirebbero lavorazioni naturali a base di sale.
Perché fa male la carne rossa? Per via di alcune molecole liberate nel corso della cottura e nei processi di conservazione. Le carni contengono proteine animali, assimilabili a quelle vegetali, ma in più possiedono molecole potenzialmente nocive come i grassi saturi in grado di incrementare i livelli di colesterolo e peggiorare le condizioni cardiache. Sotto accusa anche emoglobina e mioglobina, che danno il tipico colore rosso delle carni: la loro presenza include una molecola detta “gruppo eme” che ruba all’organismo l’ossigeno necessario a mantenere funzionali e in salute gli organi. Non è possibile stilare una relazione precisa e netta fra una patologia e il consumo di carne rossa, ma è certo che l’assunzione abituale di alimenti simili predispone a diabete, coronopatie, e tumori soprattutto del tratto digestivo.
Il vegetarismo, la soluzione? Per vari nutrizionisti ed ecologi potrebbe essere il risultato migliore, ma ci sono tanti dubbi. L’argomento è stato affrontato di recente anche dal New Scientist. Ci sarebbe un calo drastico del consumo di acqua necessario ad abbeverare gli animali degli allevamenti; un crollo dell’uso di pesticidi, fertilizzanti, combustibili per i trattori. Le immissioni di gas serra nell’atmosfera crollerebbero, diminuirebbero inoltre l’eutrofizzazione dei laghi e il depauperimento agricolo del suolo. Ma ci sarebbero delle controindicazioni. Con la fine del consumo di carne non si otterrebbero più 11 milioni di tonnellate di cuoio e 2 milioni di tonnellate di lana e anche la produzione di latte subirebbe un duro contraccolpo; non ci sarebbe più letame, i concimi diverrebbero solo chimici con gravi ripercussioni sull’ambiente. Probabilmente nessuno sa come potranno andare veramente le cose, ma è senz’altro utile pensare che una consistente riduzione del consumo di carne su scala globale possa portare a un miglioramento complessivo delle condizioni dell’uomo e dell’ambiente.
riproduzione consentita con link a originale e citazione fonte: rivistanatura.com