Il pesce, i molluschi e altri tipi di frutti di mare giocano un ruolo importante nella nostra vita. Ma quando mettete una bistecca di tonno nel piatto o dei gamberetti nella pasta, vi siete mai chiesti da dove provengano?
La verità è che dietro l’industria del pesce in alcuni casi c’è una filiera fuori controllo, dove si annidano forme di moderna schiavitù, oltre a pericoli per la salute dei consumatori e per la sopravvivenza dell’ecosistema marino.
La pesca eccessiva minaccia la biodiversità
Ecco quello che occorre sapere sull’impatto che l’industria della pesca intensiva ha sul nostro pianeta.
- Dal 1950 al 2015, il numero delle flotte da pesca in tutto il mondo è raddoppiato, raggiungendo i 3,7 milioni.
- La continua espansione delle flotte industriali ha comportato un’enorme pressione sulle popolazioni ittiche e le pratiche impiegate dall’industria della pesca sono spesso volte a catturare il maggior numero possibile di pesci, spesso trascurando gli impatti sulle altre forme di vita marina e sull’ecosistema marino.
- Alcune tecniche di pesca industriale sono incompatibili con l’habitat marino: la pesca a strascico, che “ara il fondale”, causa danni irreparabili ad habitat particolarmente fragili; i pescherecci industriali con palangari – migliaia di ami da pesca alla deriva, che spesso si estendono per decine di chilometri – hanno decimato alcune popolazioni di squali e uccelli marini; i pescherecci con reti a circuizione, che utilizzano reti giganti che circondano e catturano grandi quantità di tonno con l’aiuto dei FAD (dispositivi di aggregazione dei pesci).
Una risorsa vitale
Queste pratiche intensive da un lato minacciano la biodiversità dei nostri oceani e riducono al minimo le possibilità di far prosperare e sopravvivere più pesci, dall’altro impoveriscono e sottraggono l’unica fonte di sostentamento a molte comunità di piccoli pescatori locali.
Milioni di comunità costiere in tutto il mondo dipendono dalla pesca come unica fonte di reddito. Nei Paesi in via di sviluppo, la pesca e le attività correlate, come la costruzione di barche o la lavorazione del pesce, danno lavoro a milioni di persone e il pescato è una delle loro principali fonti di proteine.
Ma con i pescherecci industriali che lavorano l’oceano come una fabbrica, milioni di pescatori locali sono lasciati con un mare impoverito e la perdita totale di mezzi di sussistenza.
Il prezzo troppo basso del pesce nasconde violazioni dei diritti umani
Un trancio di tonno a buon mercato può sembrare un affare, ma un’industria che saccheggia l’oceano per portare sulle nostre tavole pesce di seconda scelta non solo ha un grande costo per l’ambiente, ma nasconde anche un lato oscuro: la manodopera sfruttata e abusiva.
La pesca è un’attività ad alta intensità di manodopera, che incide per il 30-50% dei costi operativi totali.
Sempre più evidenze suggeriscono che lavoratori migranti, soprattutto del Sud-Est asiatico, sono spesso usati per aggirare i diritti del lavoro. Ci sono casi ben documentati di pescatori migranti che dopo essere stati attirati con la promessa di un buon salario, sono stati costretti a vivere in condizioni spaventose, a lavorare in condizioni disumane per pochi o nessun salario e a subire spesso abusi
La pratica del “trasbordo”, per cui le catture (alcune anche illegali) vengono scaricate da un peschereccio attrezzato a una barca di trasporto, per consentire al peschereccio principale di rimanere in mare più a lungo senza rientrare in porto, significa che questi lavoratori sono completamente isolati in mare per mesi, anche anni. Greenpeace Sud-Est asiatico ha testimonianze e rapporti per dimostrarlo.
Che cosa possiamo fare?
Come altri alimenti che consumiamo, anche il pesce – confezionato o fresco – ha dietro una storia: come è arrivato fino a noi, chi l’ha pescato e dove è stato pescato. Non è facile far cambiare le pratiche a un’intera industria, ma informandosi e scegliendo pesce pescato con metodi sostenibili, si può essere un consumatore attento all’oceano.
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