Negli Stati Uniti l’eutanasia degli animali da compagnia indesiderati o di quelli abbandonati è una misura non solo legale ma anche adottata in strutture gestite da associazioni per la tutela degli animali. Fra queste una delle più famose è PETA, nota organizzazione per la tutela dei diritti animali che la pratica da sempre nelle strutture che gestisce, ritenendola l’unica soluzione in tutti quei casi in cui gli animali abbandonati/indesiderati oppure ceduti dai proprietari non hanno facilità di trovare nuovamente una casa. Questa scelta ha comportato che PETA si sia trovata sotto il fuoco di fila di altre associazioni e di molti attivisti per i diritti degli animali che hanno aspramente criticato la scelta dell’abbattimento degli animali rispetto a quella no kill che anche negli Stati Uniti sta prendendo sempre più piede.
In Italia pratica vietata
«In Italia – dichiara Ermanno Giudici, presidente di ENPA Milano e blogger sui diritti degli animali dalle pagine del sito ilpattotradito.it – dal 1991 è vietata la soppressione di tutti i cani e i gatti presenti in canili e rifugi, dopo anni di abbattimenti praticati su larga scala con metodi molto spesso molto discutibili, come le famigerate camere a gas. La legge prevede che i cani, sia ceduti che rinvenuti vaganti sul territorio, possono restare in canile senza limiti di tempo e lo stesso vale per i gatti, anche per quelli randagi che per vari motivi non possono essere reinseriti nella colonia felina di provenienza. Questo è sicuramente un fatto positivo per gli animali, a patto che le strutture garantiscano il loro benessere e che non diventino ostaggio di gestori senza scrupoli che ostacolano la loro adozione per ragioni di guadagno. Ancora oggi, infatti, sono troppe le strutture che non sono in grado di gestire il benessere dei soggetti ospitati in modo corretto e non mancano episodi di vera e propria gestione malavitosa, compiuta con il solo scopo di drenare risorse pubbliche. Purtroppo il vero problema è dato dalla carenza dei controlli, da infiltrazioni di organizzazioni criminali specie nel sud del nostro paese, dove il fenomeno del randagismo è ancora diffusissimo e dove cani e gatti sono visti come una fonte di reddito e non come esseri viventi da tutelare».
Lottare per fermare il randagismo a monte
Il vero problema, secondo Giudici è però dato dallo scarso contrasto operato nei confronti del randagismo, che non può essere arginato mettendo i cani nei canili. «Occorrerebbero – dice – programmi capillari di sterilizzazione, anche dei cani padronali, specie nelle zone rurali dove il vagantismo degli animali è un fenomeno molto diffuso, problema che inevitabilmente porta a riproduzioni indesiderate che sono la vera sorgente da cui si alimenta il fenomeno del randagismo». Senza contare, come abbiamo più volte sottolineato, che questa diffusione di cani vaganti sul territorio comporta casi di ibridazione con il lupo, con i problemi genetici per la specie selvatica che ne deriva.
Il fenomeno è complesso e i risultati hanno dimostrato come non possa essere considerata una soluzione né la soppressione né la custodia degli animali in canile, magari per tutta la loro vita. Bisogna altresì lavorare su sterilizzazione e educazione perché il fenomeno possa arrivare a numeri contenuti e gestibili, che consentano attività di ricollocazione degli animali in tempi brevi. Sicuramente in Italia non sarebbe pensabile avere associazioni che gestiscono i rifugi abbattendo gli animali, sia perché la legge lo vieta ma anche perché la coscienza animalista degli italiani non consentirebbe un ritorno al passato.
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