Chiamatele come vi pare, bufale o fake news. Certo è che nell’era dell’informazione il nemico pubblico è la disinformazione. E non si tratta di un fenomeno circoscritto – si fa per dire – al web e ai social network.
Certo, resto un po’ sconcertato quando qualcuno mi somministra verità assolute eppure stravaganti e alla domanda “ma dove l’hai letto?” risponde candidamente “su Facebook”. Ma bastano la tradizione o una veste istituzionale per fornire una patente di attendibilità? Proverò a rispondere citando due esempi.
Il 27 febbraio di quest’anno l’inserto “La Lettura” del Corriere della Sera ha ospitato un interven, professore emerito di Princeton, intitolato: «Credetemi il clima non è surriscaldato». Nel sommario era scritto: «La Lettura ha fatto dialogare le sue tesi con quelle di Mark Cane, padre di El Niño». Pare però che Happer non abbia mai pubblicato nulla sul tema a livello scientifico e che sia stato consulente delle lobby statunitensi delle fonti fossili. C’è di più. Qualche settimana dopo, il sito climalteranti.it ha ospitato la lettera che il climatologo Cane ha inviato al direttore del quotidiano di via Solferino per esprimere il suo disappunto sul metodo usato. Ne riprendiamo uno stralcio: «Quando ho risposto alle domande della sua giornalista, Serena Danna, non mi era stato detto che le mie risposte sarebbero state presentate come facenti parte di un “dibattito”. Nonostante il risultato finale non sia catastrofico, ci sono alcuni punti che mi imbarazzano inutilmente — ed imbarazzano anche Il Corriere […] Questo è un disservizio ai suoi lettori, che li priva della comprensione che sarebbe derivata da un vero dibattito […]».
Cambiamo argomento. Il 20 dicembre 2016 il ministro Franceschini ha dichiarato al Sole 24 Ore: «Mi pare che in questi anni sia cresciuta la consapevolezza che investire in cultura non sia soltanto qualcosa che fa bene alle menti, alle anime, ma fa bene anche all’economia del Paese. Lo ha capito con anticipo il Sole 24 ore, lo ha capito Confindustria. Mi pare che le scelte che sono state fatte di crescita consistente della quota di bilancio dello Stato destinata ai Beni culturali dimostrino che il governo e il parlamento credono in questa opportunità». In quei giorni si erano svolti gli Stati generali della cultura organizzati dallo stesso quotidiano economico, in collaborazione con l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e Poste Italiane.
Cultura come volano dell’economia, questa dunque era il succo della notizia.
Ora, lo scorso 24 luglio, l’Agenzia per la Coesione Territoriale, struttura che dipende dalla Presidenza del Consiglio, ha pubblicato la propria Relazione annuale. Da questa si evincono dati che non solo non confermano la tesi sopra esposta, ma la contraddicono in modo evidente. I flussi di spesa 2015-16 del settore pubblico sono commentati con queste parole: «Quello in cultura rimane il più grande disinvestimento settoriale che si sia avuto in Italia negli anni 2000, certamente influenzato dalle politiche di contrazione della spesa pubblica, che tuttavia nella cultura hanno pesato più che in tutti gli altri comparti». Nel 2015 in Italia la spesa per attività culturali e ricreative in rapporto al Pil è risultata pari allo 0,7%, nell’UE siamo penultimi in classifica. Dietro di noi, solo l’Irlanda.
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