Oggi 24 maggio è la Giornata europea dei Parchi, evento che chiude la prima Settimana della natura – dal 18 al 24 maggio – indetta dal ministero dell’Ambiente.
Questa celebrazione può essere l’occasione per riflettere sul ruolo storico avuto dai Parchi nel nostro Paese e su come rilanciarne l’azione.
Mentre dall’Italia e dal mondo si levano sempre più forti le voci di chi pretende un futuro sostenibile, i Parchi – nati proprio allo scopo di proteggere un determinato territorio e di favorire al suo interno la sperimentazione e lo sviluppo di pratiche sociali ed economiche rispettose dell’ambiente – sprofondano nell’oblio. Quasi come in un contrappasso dantesco. Allora è lecito domandarsi: quale peccato hanno commesso?
Il lento quanto inesorabile declino delle aree protette è un fenomeno che parte da lontano e ha investito il nostro Paese più di altri. Altrove i Parchi restano validi strumenti per valorizzare siti puntuali o intere aree geografiche, da noi no. Eppure anche a casa nostra per anni si è detto e scritto che una politica volta a salvaguardare la biodiversità sarebbe stata fondamentale per il futuro della nazione, dell’Europa e dell’intero Pianeta.
Forti di questo convincimento, ai Parchi nazionali storici – risalgono al 1922 quelli del Gran Paradiso e d’Abruzzo – se ne sono via via aggiunti numerosi altri e a questi si sono affiancate le Aree protette regionali. Il sistema è arrivato a coprire circa 6 milioni di ettari, ripartiti tra superficie a terra, che è pari a oltre il 10% del territorio nazionale, e superficie a mare. Qualcuno ha guardato ai Parchi con forte ottimismo, innalzandoli a organismi capaci di aprire provvidenziali orizzonti. In effetti alcune di queste grandi aule all’aperto a un certo punto hanno assunto l’aspetto di veri e propri laboratori di idee da cui ci si è illusi che potessero fuoriuscire prospettive rigenerate per tutto il Belpaese. Poi è arrivata la notte.
Le minacce di ieri e di oggi
I Parchi italiani hanno svolto un prezioso lavoro in questi decenni per preservare la grande ricchezza che popola la penisola. Molti sono i progetti avviati che hanno garantito la sopravvivenza di importanti habitat, la reintroduzione o il ritorno di specie minacciate e il rilancio di piccole comunità rurali. È grazie alle Aree protette grandi e piccole, nazionali e locali, che in molti casi si è riusciti ad arrestare la perdita di biodiversità.
Due esempi per tutti, assai differenti. Senza un sistema diffuso di territori salvaguardati sarebbe stato difficile anche solo immaginare la ricolonizzazione dell’appennino settentrionale prima e dell’arco alpino dopo da parte del lupo. Per difendere scampoli di natura e di campagna, nel 1974 fu istituito il Parco lombardo del Ticino, prima area protetta regionale in Italia. Senza di essa la conurbazione milanese avrebbe raggiunto le sponde del fiume spazzando via per sempre habitat pregevolissimi.
L’elenco potrebbe riempire pagine e pagine. Solo chi è in malafede può dubitare del ruolo benefico esercitato da un’attiva politica di protezione all’interno di un Paese che ha dovuto gestire una crescita rapida e tumultuosa senza eguali in Europa.
Il problema è capire cosa è successo dopo. È fin troppo evidente che la crisi istituzionale e d’immagine in cui è precipitato l’intero sistema non è riconducibile a un’unica causa. Tuttavia può essere utile tentare di elencare, senza l’ambizione di essere esaustivi, alcune delle ragioni che hanno condotto alla situazione attuale.
Dalla metà degli anni Settanta fino agli anni Novanta si è assistito a una cavalcata trionfale, poi è stato un susseguirsi di provvedimenti che hanno sistematicamente minato ciò che era stato costruito con fatica.
La crisi dei Parchi italiani risente inesorabilmente di quella più generale che ha investito le istituzioni dopo il 2001, con quella riforma del titolo V della Costituzione sull’assetto del governo territoriale, mai attuata fino in fondo. Poi è stata aggravata dalla crisi economica partita alla fine dello scorso decennio. L’alibi dell’emergenza, invocato per ridurre i costi della politica, ha investito le aree protette con la forza di un uragano. Nonostante le risorse destinate al comparto fossero già esigue rispetto ad altri Paesi dell’Unione europea, si è cercato ostinatamente di ridurle ulteriormente, finendo con l’impoverire un sistema ideato per generare nuove forme di benessere. Ai pesanti tagli finanziari si sono aggiunte proposte bislacche che vanno dall’abrogazione tout court dei Parchi regionali a una vaga idea di privatizzazione che non trova esempi in nessun paese. Obiettivo condiviso di questo coacervo di pseudopolitiche è sempre stato lo smantellamento della rete.
Le molteplici responsabilità
Anche nel momento più felice, il sistema conteneva germi minacciosi che in seguito hanno dato origine alla malattia. Le aree protette sono state i primi territori ad assumere dentro di sé – in modo più o meno consapevole – il senso del limite. Questo presupposto conduce a un bivio.
Da un lato si va verso la pura conservazione, espressione che di per sé non evoca nulla di spiacevole, se non fosse che è stata spesso usata nella sua accezione riduttiva, ossia nemica dello sviluppo. In realtà l’attitudine di un territorio a tutelare la propria storia e le proprie tradizioni non ha nulla di retrivo, anzi è una conquista della modernità.
Dall’altro il sentiero vira verso la green economy, che alla luce di quanto sta accadendo assume sempre più un significato strategico di salvezza: gli investimenti per valorizzare le risorse naturali si stanno rivelando una delle risposte più efficaci ai cambiamenti strutturali in atto, non qualcosa che le esigenze dell’economia non permettono di compiere.
Prendere l’una o l’altra direzione è una scelta strategica, che va compiuta in ragione delle peculiarità espresse dall’area geografica in questione. Un simile ragionamento vale in Italia come in qualsiasi altro luogo del mondo. Da noi, però, si sono rese presto necessarie analisi più complesse. L’idea di parco naturale che abbiamo importato dagli Stati Uniti all’inizio del secolo passato si è dovuta adattare alle nostre caratteristiche, che sono pressoché uniche. Qui non esistono vasti territori disabitati e aree wilderness, ma ci sono mirabili paesaggi culturali creati da un antico rapporto tra l’ambiente e l’incessante azione dell’uomo. Quindi si è trattato di garantire non soltanto la salvaguardia della natura, ma anche del paesaggio e delle stratificazioni del passato. Facile a dirsi, più complicato da attuare.
Alcuni Parchi, sia nazionali che regionali, sono sorti senza il necessario consenso, altri addirittura non hanno mai visto la luce proprio per la contrarietà mai sopita delle popolazioni locali. Siccome è una questione annosa, potrebbe apparire superata. Invece è proprio in questo conflitto irrisolto che hanno trovato terreno fertile le più fantasiose iniziative volte a indebolire le istituzioni preposte a tutelare il territorio.
Purtroppo la parziale impopolarità dei Parchi non ha impedito il diffondersi di un fenomeno tipicamente italiano, che è quello della spartizione. Fatte le dovute eccezioni, la classe dirigente è apparsa inadeguata. Troppe volte nei consigli di amministrazione delle aree protette hanno finito per sedersi politici trombati, al pari di un qualsiasi consorzio creato apposta per accomodare il candidato bocciato dagli elettori, magari in attesa di una nuova e più ghiotta occasione, o i pensionati d’oro della politica. Ridotti al lumicino dai tagli e privati della necessaria sorveglianza, in più casi i Parchi sono diventati una miserevole espressione dei potentati locali.
Il futuro incerto
Il sistema è sopravvissuto a molti attacchi. Ne è uscito fiaccato e compromesso, tuttavia resiste. Il merito è soprattutto di chi resta in prima fila, ossia di quegli uomini e quelle donne che nonostante tutto e tutti non si sono arresi. Continuano a lavorare nei Parchi, per i Parchi e per tutti noi.
Nella passata legislatura è stato miracolosamente affossato un disegno di legge a firma del senatore Pd Massimo Caleo, appoggiato da quasi tutto il suo partito e dal centrodestra, che mirava a indebolire ulteriormente le Aree protette nazionali con presidenti e direttori scelti senza garanzie tecnico-scientifiche e altre misure discutibili. Il provvedimento non è stato abbandonato in via definitiva. L’attacco alla legge-quadro – l’ormai mitica 394 del 1991 promossa da Antonio Cederna e Gianluigi Ceruti – è ripreso con vigore nei corridoi del Parlamento. La situazione è aggravata dal fatto che nessuno più ne parla. L’ambiente sembra stare a cuore solo a Papa Francesco e chissenefrega dei Parchi. Niente di meglio per chi vuole ridurne i confini o farne uno spezzatino sul modello dello storico Parco dello Stelvio.
Dai territori giungono notizie cupe. Un paio di anni fa la Regione Lazio ha tentato di autorizzare la caccia nel proprio versante del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, dove sono presenti zone speciali di conservazione dell’orso marsicano. L’ipotesi è stata sventata da un ricorso delle associazioni ambientaliste accolto dal Tar. Nel 2019, solo l’impugnazione davanti alla Corte Costituzionale ha bloccato la legge voluta dalla Regione Liguria con cui s’intendeva ridurre i confini di alcuni parchi regionali e addirittura cancellarne altri.
Suona come una voce nel deserto quella del ministro dell’Ambiente Sergio Costa, che dopo avere firmato la scorsa estate i decreti di nomina dei presidenti di cinque Parchi nazionali (Sila, Cinque Terre, Gargano, Dolomiti Bellunesi e Alta Murgia), ora gira l’Italia per contrastare le tante iniziative tese a svuotare le aree protette e lanciare l’idea di un paese-parco, in cui i Comuni che desiderano fare parte delle aree tutelate avranno incentivi fiscali e meno burocrazia. Intanto la Regione Veneto è intenzionata a dare una sforbiciata a quasi un quinto del Parco della Lessinia, tra le province di Verona e Vicenza.
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