Il Regno Unito ha elaborato una nuova strategia di decarbonizzazione che secondo il ministro dei trasporti Grant Shapps sarà rivoluzionaria. Il piano, lanciato in previsione del prossimo COP26 sul clima, che sarà organizzato in sinergia con l’Italia, prevede di arrivare a “emissioni zero” nel settore trasporti a far data dal 2050. Secondo il ministro questo obiettivo è adeguato e realizzabile entro il periodo prefissato e porterà posti di lavoro per 9,7 miliardi di sterline.
Il Ministro dei Trasporti britannico Grant Shapps ha così commentato la sua proposta con gli organi di stampa: «Il trasporto non è solo il modo in cui ci si sposta. È qualcosa che modella fondamentalmente le nostre città, villaggi e campagne, i nostri standard di vita e la nostra salute. Può plasmare tutte queste cose nel bene e nel male. La decarbonizzazione non è solo un processo tecnocratico. Si tratta di fare in modo che il trasporto migliori la qualità della vita e faccia crescere l’economia.
Non si tratta di impedire alle persone di fare qualcosa: si tratta di fare le stesse cose in modo diverso. Voleremo ancora per andare in vacanza, ma con aerei più efficienti, usando carburante sostenibile. Guideremo ancora auto, ma sempre di più con auto a zero emissioni».
Andando indietro nel tempo, quando anche la Gran Bretagna era ancora parte della UE possiamo ritrovare gli stessi intenti per un Europa climaticamente neutra entro il 2050. Ipotesi che era stata avanzata già prima dell’avvento della pandemia, risalendo al 28 novembre 2018.
«I cambiamenti climatici sono la sfida più grande della nostra epoca, ma rappresentano anche un’opportunità per costruire un nuovo modello economico. Il Green Deal europeo indica la strada da seguire per realizzare questa profonda trasformazione. Tutti i 27 Stati membri hanno assunto l’impegno di fare dell’UE il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050. Per raggiungere questo traguardo si sono impegnati a ridurre le emissioni di almeno il 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. In questo modo si creeranno nuove opportunità per l’innovazione, gli investimenti e l’occupazione».
Questi fondamentalmente sono rimasti gli obiettivi della UE per contrastare i cambiamenti climatici, che sembrano non aver subito grandi accelerazioni da quando è scoppiata la pandemia di SARS-Cov19. La gravità della situazione sanitaria e le sue conseguenze avrebbero dovuto essere in grado di velocizzare le azioni di contrasto al disastro ambientale, mentre in realtà molte delle attività intraprese restano al momento dichiarazioni di intenti per il prossimo ma non immediato futuro.
Ascoltando le intenzioni dei politici europei, e non soltanto, sembrava che lo scoppio dell’emergenza sanitaria avesse fatto prendere coscienza sia dell’emergenza climatica che delle ragioni, spesso sovrapponibili, che l’hanno abbinata a quella sanitaria. Le attività umane hanno modificato così tanto l’ambiente in questi ultimi cento anni e con una velocità davvero impressionante, tanto da farci entrare a pieno titolo in quello che gli scienziati hanno battezzato come Antropocene, una nuova Era dominata dai cambiamenti causati dalla nostra specie.
Le scelte messe in atto sembrano non avere la velocità necessaria per imprimere un reale cambiamento, utile a combattere già oggi le alterazioni ambientali e climatiche. Economia e finanza stanno condizionando in modo importante le scelte dei governi, costringendoli a rallentare l’adozione di misure drastiche, per paura dei contraccolpi economici che potrebbero causare.
Una visione del problema che moltissimi scienziati trovano preoccupante: ritardare i progetti di ristorazione ambientale produrrà nel medio periodo danni molto più importanti di quelli che avremmo dovuto sopportare se avessimo affrontato responsabilmente il problema.
Considerando che i risultati delle azioni messe in atto oggi saranno visibili soltanto nel medio periodo, proprio come avverrebbe con lo spegnimento del motore di una nave lanciata alla massima velocità: dal momento in cui si arrestano le eliche a quello in cui cessa il movimento della nave trascorre il tempo necessario a esaurire la spinta propulsiva. Proprio come accadrebbe se smettessimo di usare già oggi petrolio e carbone.
Per questo l’abbandono delle energie fossili deve essere un obiettivo primario, ma considerando che non potrà essere raggiunto in tempi brevissimi occorrono misure integrative che possano iniziare da subito a limitare i danni.
La riduzione del consumo di proteine animali è una delle iniziative che potrebbe essere attuata molto velocemente, ma ancora oggi l’Europa attraverso il PAC, il Piano Agricolo Comune, continua a incentivare allevamenti intensivi e monoculture, erogando sovvenzioni pubbliche anche per stimolare, invece che ridurre, il consumo di proteine animali.
Il PAC rappresenta 1/3 dell’intero bilancio europeo, costituendo uno strumento fondamentale per orientare le scelte dell’intero continente su questi argomenti. Nell’ottobre 2020 il Parlamento Europeo ha varato la Strategia agricola comunitaria che condizionerà i prossimi sette anni delle politiche europee del settore, rifiutandosi di prendere posizione contro gli allevamenti intensivi e le monocolture che servono per produrre proteine vegetali per il loro allevamento. Questa decisione rappresenta un vero schiaffo in faccia dato a quanti speravano che la Comunità potesse attivarsi per iniziare da subito per fissare dei paletti di tutela ambientale.
Considerando che dagli allevamenti intensivi proviene il 17% di tutti i gas serra prodotti all’interno della UE.
Una scelta contro la quale si erano espresse chiaramente le associazioni ambientaliste come Greenpeace, che poco tempo prima dell’approvazione del nuovo PAC dichiarava dalle pagine del suo sito:
«I numeri parlano chiaro: non possiamo evitare le conseguenze peggiori della crisi climatica se a livello politico si continua a difendere a spada tratta la produzione intensiva di carne e latticini» dichiara Federica Ferrario, responsabile campagna agricoltura di Greenpeace Italia. “
«L’Ue sta elaborando una nuova legge sul clima, aggiornando i suoi obiettivi climatici e definendo la PAC per i prossimi sette anni. La nostra analisi mostra chiaramente che un’azione credibile per il clima deve includere la fine delle sovvenzioni pubbliche per l’allevamento intensivo nella PAC e utilizzare piuttosto il denaro pubblico per sostenere la riduzione del numero di animali allevati e aiutare gli agricoltori a una vera e propria transizione».
Altri interventi potrebbero essere adottati ben prima del 2050, come la protezione di vaste aree terrestri e marine per aumentare la resilienza e la difesa ambientale e normative chiare che contrastino il consumo di suolo, non consentendo più di costruire su terreni agricoli se esistono già altre aree cementificate da riqualificare all’interno delle aree urbane e periurbane.
Proprio di questi giorni è la notizia che le associazioni ambientaliste chiedono alla politica di approvare velocemente una legge quadro sul clima, in modo da unificare normative spesso in contrasto fra loro per arrivare a un testo unico che possa diventare un efficace strumento di tutela ambientale.
Per arrivare a risultati concreti e in tempi rapidi è però necessario che la politica non si faccia dettare l’agenda dalla finanza e dall’economia, per evitare che gli interessi di pochi possano creare danni irreparabili a moltissimi. Considerando che il solo innalzamento dei mari potrebbe costringere a migrare, nei prossimi 50-80 anni, un miliardo e mezzo di persone costrette ad abbandonare le aree costiere, con conseguenze che si possono immaginare con grande facilità.