Il mio rapporto con il mondo dei consumi è stato finora altalenante. Dopo avere attraversato, in giovane età, una stagione improntata a una sobrietà quasi monastica, passati i trent’anni ho ceduto alle lusinghe del denaro facile, abbandonandomi spesso ad acquisti compulsivi.
Da tempo ho ritrovato un equilibrio.
Tuttavia non ho ancora smesso di domandarmi dove finisce la ricerca di uno stile di vita sostenibile e sano e dove, invece, cominciano l’integralismo e la nostalgia di un mondo perduto, che a volte può spingersi fino all’ottusità antimodernista.
La ricerca di questa armonia mi assilla. E la mia mente continua a ripetermi: “Quello che fai non è ancora abbastanza”. Ciò che mi crea ancora maggiore disagio è una voce altrettanto insistente che dice: “Niente di quello che potresti fare sarebbe comunque abbastanza”.
Così mi affanno a trovare soluzioni, rivolgendomi ora alla mia coscienza ecologista, ora al mondo verde che in qualche modo frequento da sempre. A volte mi pare di non essere affatto solo in questa ricerca, eppure alla fine approdo sempre alla desolante consapevolezza di una società che, comunque, affrancatasi dalla crisi recente (perlomeno in vaste aree del globo), corre a tutto gas in direzione opposta alla sostenibilità.
È in questi momenti che i miei interrogativi scendono ancora più in profondità, fino a condurmi alle domande esistenziali: Malthus era un cattivo maestro o ha solo detto scomode verità? E se la crescita esponenziale della popolazione non è sostenibile su un pianeta finito, che senso può avere rinunciare all’auto, costruirsi una compostiera domestica o acquistare prodotti a km zero, se poi si sceglie di mettere al mondo altri individui che minacceranno la sopravvivenza del Pianeta? Ma, viceversa, che senso può avere impegnarsi a conservare la Terra se non la lasceremo in custodia a qualcuno?
Avete qualche risposta, anche di seconda mano?
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