Il primo caso di bird strike risale al 7 settembre 1905 e fu coinvolto il terzo aeroplano costruito dai fratelli Wright, il Wright Flyer III.
Il fenomeno è così attuale che i convegni mondiali tra esperti si susseguono per stabilire gli effetti e le potenziali contromisure.
Le collisioni tra aerei e animali selvatici (wildlife strike) del resto sono un fenomeno in aumento e gli impatti con gli uccelli costituiscono il 95-98% di tutti gli incidenti causati dalla fauna selvatica.
Un recentissimo studio di Alessandro Montemaggiori, il massimo esperto italiano del settore, pubblicato sulla rivista Alula, ha messo a fuoco la situazione italiana rispetto a quella internazionale.
Monitorare e valutare questa dinamica di impatti è fondamentale, non solo per la sicurezza. Pensate che, dal punto di vista economico, i wildlife strike comportano per l’industria dell’aviazione commerciale mondiale un costo annuo stimato di circa 1,2 miliardi di dollari.
I dati raccolti negli Stati Uniti mettono in evidenza anche l’entità dei danni. Secondo lo studio di Montemaggiori negli Stati Uniti il 7% di tutti i bird strike registrati tra il 1990 e il 2020 (238.652) ha provocato danni all’aeromobile, ma meno del 3% sono stati gli impatti con danni sostanziali o con effetto catastrofico. Sempre negli USA, il 5% dei bird strike ha provocato un effetto negativo sul volo, ma meno dell’1% ha comportato lo spegnimento del motore colpito.
Il vero problema, però, è che gli impatti ad alta velocità con grandi stormi possono determinare anche effetti catastrofici portando a esiti nefasti.
Come il grave incidente verificatosi a New York nel gennaio 2009, quando un bird strike con oche canadesi (Branta canadensis) ha costretto un A-320 a un drammatico ammaraggio sul fiume Hudson.
Più recentemente, a Mosca, nell’agosto del 2019, un velivolo A321, dopo un impatto con gabbiani sulla pista in fase di decollo, è atterrato miracolosamente in un campo di granturco senza incendiarsi: illesi i passeggeri.
In Italia ricordiamo l’incidente nell’aeroporto di Roma Ciampino del novembre 2008 in cui uno stormo di storni (Sturnus vulgaris) determinò la perdita del velivolo B-738.
Le specie più a rischio di collisione
Uno studio del 2007 ha stilato una classifica delle specie di uccelli più coinvolte nei bird strike nel periodo 2008-2015, che risultano essere: Passeriformi (22%), Caradriformi (11%), Accipitriformi (9%), Columbiformi (7%) e Apodiformi (2%).
Secondo i dati italiani prodotti dall’ENAC nel 2002 si registravano 348 impatti tra aerei e fauna selvatica mentre nel 2019 si è arrivati a 2.095 incidenti, risultato dovuto anche all’incremento di raccolta dati.
Poi nel 2020, i bird strike hanno registrato un brusco calo grazie al lock-down imposto dalla pandemia di COVID-19, durante il quale, tra marzo 2020 e febbraio 2021, la riduzione del traffico aereo è stata del 72% .
La maggior parte dei bird strike in Italia si registra tra maggio e agosto. Maggio e giugno sono i mesi nei quali sono coinvolti maggiormente i rondoni e le rondini.
I mesi compresi tra luglio e settembre vedono coinvolto maggiormente il gheppio, mentre a maggio ne fa le spese soprattutto il gabbiano reale, che tuttavia viene investito anche durante altri periodi dell’anno.
In Italia ci sono complessivamente 126 aeroporti distribuiti su tutto il territorio nazionale e il fenomeno del bird strike è disciplinato dall’ENAC che segue norme nazionali ed europee indicando ai singoli scali aeroportuali quali contromisure e azioni di mitigazione adottare in merito alla presenza di specie ornitiche.
Infatti, le piste degli aeroporti per gli uccelli costituiscono ambienti naturali particolari che possono favorire alcune specie grazie alla presenza di incolti erbacei molto estesi, ottimali per alcune specie stanziali (come gheppi e gabbiani…), ma possono divenire anche ottimi luoghi per soste temporanee durante la migrazione, causando elevati problemi al traffico aereo.
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