All’inizio, gli aggettivi si sono sprecati. C’era chi parlava di una nuova Chernobyl, chi di un disastro ambientale con conseguenze pari a quanto avvenuto a Fukushima. Poi i riflettori sulla catastrofe del Rio Doce si sono spenti e nessuno ha più parlato delle conseguenze della tragedia che ha colpito lo stato di Minas Gerais, nel cuore del Brasile. Troppi, infatti, gli interessi in gioco.
Il fatto
Tutto è accaduto a Mariana, zona mineraria del Brasile, a inizio novembre. Improvvisamente cedono le dighe di lagunaggio delle scorie della miniera Samarco, controllata in parte dalla compagnia Vale e dal colosso anglo australiano Bhp Billiton. È un attimo. L’onda di scorie tossiche si riversa nel Rio Doce e invade i villaggi che sorgono tutto intorno a questo sito di estrazione del ferro, causando la morte a 11 persone (12 sono i dispersi e oltre 600 gli sfollati).
Le conseguenze
Stando ai primi rilievi compiuti, il fango che ha avvelenato la zona conteneva tracce di mercurio, arsenico, piombo e altri metalli pesanti. In totale sono stati rilasciati 62 milioni di metri cubi di fanghi tossici che hanno già contaminato la flora e la fauna del Rio Doce.
Intanto, le acque del fiume avvelenato corrono veloci verso l’Oceano Atlantico. La costa di Espírito Santo è una zona che vive di pesca e turismo, e la posta in gioco è davvero alta.
La Samarco, la compagnia di estrazione proprietaria dell’area, ha confermato il cedimento delle dighe e la presidente dello stato Dilma Rousseff ha invocato la necessità di un piano di intervento urgente. Ma, secondo il ministro dell’Ambiente Izabella Teixeira, per riportare il corso d’acqua alla normalità serviranno almeno 10 anni.
La battaglia di Greenpeace
“Da tempo denunciamo che in quella zona gli interessi delle compagnie sono messi in primo piano rispetto a quelli degli abitanti”. Non usa giri di parole Bruno Weis di Greenpeace Brazil, che aggiunge: “La rottura degli argini delle dighe ha causato un disastro ambientale senza precedenti e ha rovinato la vita di centinaia tra agricoltori locali, pescatori e popolazioni indigene”.
Marta Frigerio