Bajan-Ôlgij è la provincia più occidentale della Mongolia. È anche conosciuta come la regione Kazaka per via della cultura della sua popolazione e della vicinanza col Paese centrasiatico col quale però, paradossalmente, non condivide alcun confine.
La Mongolia risulta infatti stretta nell’abbraccio tra la Russia (a nord) e la Cina (a sud). Il Kazakistan si trova a 50 chilometri più ad ovest, cioè al lato opposto della sottile bretella di terra che unisce le due superpotenze in quell’area.
Abbiamo raggiunto il capoluogo Ôlgij dopo un mese di viaggio tra le sconfinate steppe di Gengis Khan.
Dalla capitale Ulaan Baatar abbiamo attraversato le regioni più settentrionali del Paese. Per procedere durante l’intero percorso abbiamo fatto affidamento alla proverbiale accoglienza di un popolo che da tempo immemorabile offre il proprio aiuto a chi si avventura in quelle terre.
I pastori nomadi sanno bene che la steppa può rivelarsi una trappola per i viaggiatori. In quegli spazi immensi non si trovano indicazioni e nemmeno riferimenti. Le uniche certezze sono le famiglie locali che si incontrano lungo il cammino. Solo grazie a loro si possono ricevere informazioni sulla rotta da tenere e sulle condizioni delle piste, oltre a ricevere pasti caldi e, quando necessario, l’accoglienza per la notte.
Spesso abbiamo “navigato” a vista senza trovare tracce da seguire, in quello che può essere definito un immenso oceano verde.
Il Bayan Olgii è una regione che ha poco in comune col resto della Mongolia, se non per l’accoglienza dei suoi abitanti. Il tradizionale benvenuto mongolo “Sen bein uu” viene rimpiazzato dal saluto arabo “Salam-Aleikum” e le moschee prendono il posto dei monasteri buddisti.
Per le strade non si incontrano più i classici lineamenti orientali dagli occhi neri e sottili, ma visi caucasici con vistose iridi azzurre e le yurta kazake (tende circolari), sparse sulle montagne, differiscono in modo evidente dalle più semplici ger mongole, soprattutto per la ricchezza dell’arredamento interno.
Ci fermiamo in città il tempo necessario per fare provviste e per un controllo al fuoristrada. I prossimi giorni li trascorreremo tra le montagne del Bajan-Ôlgij dove intendiamo raggiungere la vetta più alta del Paese, il Tavan Bogd (4.380 metri s.l.m.), detta anche “cima dell’amicizia”, in quanto equamente suddivisa tra Mongolia, Russia e Cina.
Se le piste delle altre regioni della Mongolia attraversano principalmente ambienti collinari, qui la morfologia del territorio risulta più severa, mettendo alla prova mezzi e autisti. Spesso è necessario percorrere pendii al limite del ribaltamento e risalire tracce scavate nelle pietraie. Anche in quest’occasione la mia guida si dimostra all’altezza della situazione nonostante non si trovi nel suo “ambiente naturale”.
La presenza di una catena montuosa (gli Altai), offre maggiori riferimenti visivi rispetto alla steppa, dove chi non la conosce può sentirsi costantemente perso. Cime dalle pareti verticali si alternano a innumerevoli laghi di ogni estensione sparsi in un territorio dominato da praterie e pascoli. A ogni nostro scollinare si svelano nuovi e grandiosi paesaggi dai colori netti e vividi.
L’aquila reale della Mongolia
Dopo diverse ore di viaggio, in lontananza, in prossimità della pista, appare una yurta circondata da alcune persone intente nelle loro faccende quotidiane. Ci fermiamo per i saluti e per il rituale scambio di informazioni. Veniamo accolti da un anziano signore, dalla moglie e dai nipoti che li hanno raggiunti in occasione delle vacanze estive e che li aiuteranno a badare agli animali fino a quando non riapriranno le scuole di Ôlgij.
Entriamo nella tenda dove ci vengono offerti pane, formaggio, tè caldo salato e yogurt di yak. Ricambiamo con farine e un apprezzatissimo barattolo di marmellata d’arancia. Intanto dalla porta che si affaccia verso il fiume si intravedono i ragazzini montare in sella ai loro cavalli per iniziare a radunare il bestiame. Esco incuriosito da quei movimenti.
Al lato opposto della tenda, artigliata a una roccia bianca, un’aquila reale sembra in attesa che qualcuno le tolga il cappuccio per poter esprimersi in tutta la sua potenza. Mi avvicino per osservare i suoi atteggiamenti. Al mio approssimarmi corrispondono i movimenti sempre più nervosi e rapidi della sua testa. Nonostante la mia attenzione a non produrre alcun rumore si è certamente accorta della presenza di uno sconosciuto. Le aquile fanno parte della cultura kazaka. Vengono prelevate da giovani dai loro nidi prima dei quattro anni d’età. Fino a quel periodo è facile riconoscere il tempo trascorso dal momento della nascita per via del colore della coda. Quando vengono messe al mondo hanno la coda interamente bianca che a distanza di quattro anni diventerà marrone. Quindi se appare metà bianca e metà marrone significa che l’aquila ha circa due anni.
Al termine di un periodo di apprendimento i rapaci saranno in grado di cacciare insieme ai loro padroni e di catturare piccoli roditori, marmotte e volpi e se avranno anche un compagno di caccia potranno risultare letali anche per i lupi. Al termine di otto anni di servizio verranno lasciate libere di volare nei loro cieli non solo in segno di ringraziamento per l’operato svolto, ma anche per dare loro la possibilità di riprodursi.
Si fa sera, il cammino è lungo, saranno necessari altri due giorni per raggiungere la nostra meta. Certamente incontreremo altri cacciatori, altre yurte, altri bambini e altre aquile in quest’avventura che sembra essere sempre più un viaggio nel tempo.
Il momento dello scatto
Le aquile kazake e i loro cacciatori erano tra i soggetti più attesi del mio viaggio. Avevo visto molte immagini di uomini che portavano i loro fedeli compagni artigliati ai guantoni in cuoio e con le ali spiegate al vento.
Quando trovai quel bellissimo esemplare, in piedi, immobile sulla roccia, pensai che avrei potuto sfruttare il movimento dei ragazzini a cavallo per inserire altri elementi compositivi.
Mi avvicinai e mi chinai per fare in modo che il paesaggio, il cielo e le nuvole risultassero bilanciati e in armonia tra loro. Installai il flash che utilizzai per schiarire il corpo scuro del rapace. La luce intensa mi permise di impostare la sensibilità (ISO) al minimo in modo da usufruire della massima qualità del sensore. Cercai poi il giusto equilibrio tra i tempi (in modo tale da non produrre un’immagine mossa) e i diaframmi (verso metà scala per sfruttare al massimo le qualità delle lenti). Infine attesi l’arrivo di uno dei ragazzini a cavallo che si muovevano costantemente per recuperare le loro capre e metterle nei recinti al riparo dai lupi.
Dati tecnici
- Data: 06/07/2007
- Corpo macchina: Nikon D2x Obiettivo: Nikkor 17/55 f2,8
- Lunghezza focale al momento dello scatto: 20 mm Apertura diaframma: F 9 Tempo otturatore: 1/180 sec.
- Compensazione esposizione: 0 Sensibilità sensore: ISO 100
- Flash: Nikon sb 800 modalità TTL Modo di ripresa: A (priorità di diaframmi)
VIAGGI FOTOGRAFICI di Davide Pianezze:
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