Una piccola comunità kazaka sopravvive ancora oggi nella desolata steppa della Mongolia cacciando con i rapaci.
di Gianluigi Di Maio
Sailow, a cavallo, scruta la valle dalla collina. Intanto, più giù, il figlio Birkgian scuote i cespugli con un bastone. Una volpe impaurita lascia la sua tana e inizia a correre nella steppa innevata. Sailow toglie il tomaga di pelle che incappuccia la testa dell’aquila, poggiata sul suo braccio destro. L’uccello si alza in volo e gli bastano pochi secondi per individuare la preda: si getta su di lei, a una velocità superiore ai 150 chilometri orari. Apre le ali portando in avanti gli artigli. È pronta ad afferrare la volpe, ma un repentino cambio di direzione di quest’ultima la coglie di sorpresa: l’attacco è fallito.
Questa volta la volpe è stata fortunata, perché generalmente l’aquila riesce a immobilizzarla e il cacciatore, dopo una veloce galoppata, raggiunge il rapace prima che venga ferito o prima che i suoi artigli rovinino la preziosa pelliccia della preda.
In sella al mio cavallo, con al collo la macchina fotografica, stringo con le mani le briglie e osservo tutta la scena. Provo la forte sensazione di essere tornato indietro di qualche secolo, forse catapultato di colpo nel Medioevo!
Una tecnica ancestrale
Sailow e suo figlio fanno parte degli ultimi 200 cacciatori con le aquile della Mongolia. Appartengono a una comunità kazaka, stanziata attualmente nella regione Bayan-Ölgii, che giunse in Mongolia alla fine del ’600 per non ritornare mai più nella terra d’origine.
Situata all’estremità occidentale del Paese, la regione Bayan-Ölgii è separata dal resto della Mongolia dal fiume Hovd, e dalla Cina dalla catena dei Monti d’oro dell’Altaj, le cui cime superano i quattromila metri. Un isolamento territoriale che ha permesso a questa comunità di conservare le antiche tradizioni kazake, tra cui quella millenaria della caccia con l’aquila reale, ereditata dai suoi antenati turchi, nel XV secolo.
Dopo aver mancato la preda, l’aquila riprende il volo e torna a posarsi sul braccio di Sailow, che si appoggia con il gomito su di un trespolo di legno intagliato, il baldak, a sua volta fissato alla sella. Il baldak è appositamente costruito per aiutare i cacciatori a sostenere il peso del rapace durante i lunghi spostamenti a cavallo: un’aquila reale come questa (Aquila chrysaetos daphanea) può infatti arrivare a pesare 7 chili e raggiungere un’apertura alare superiore ai 2 metri.
Mentre riprendiamo la strada verso la casa di Sailow, ci raggiunge al galoppo Baterback, una guardia forestale, per ricordarci che l’indomani sarebbe iniziato il fermo venatorio. Siamo a fine febbraio e quest’anno la caccia alla volpe si conclude con quest’ultima battuta, a cui ho avuto il privilegio di assistere, mentre per tutta la primavera e l’estate le volpi vengono lasciate libere di riprodursi e allevare i loro cuccioli. Nel frattempo l’aquila continuerà il suo addestramento con le pelli di lepre per affinare la tecnica predatoria.
Verso l’ora di pranzo, dopo una lunga cavalcata arriviamo finalmente a casa del cacciatore. Qui Sailow, come gli altri nomadi kazaki, abita solo in inverno, quando le temperature possono scendere a –40 °C. In estate, le famiglie si spostano di pascolo in pascolo montando la loro ger, la tipica tenda di feltro. Ad attenderci troviamo sua moglie Panzia che, dopo aver preso in consegna una lepre bianca, unico bottino della battuta di caccia, ci serve del tè salato con latte di cammello mentre mette sul fuoco un grande pentolone per cucinare uno stufato di carne di cammello con cipolle e patate e gli immancabili buzz, una sorta di ravioli con farcitura di carne di montone. Al banchetto partecipa anche Baterback, che scopro essere, oltre che guardia forestale, anche il veterinario della comunità.
Il viaggio in pratica
Il periodo migliore
Il lungo e rigido inverno mongolo termina tra aprile e maggio. Nei mesi successivi le temperature sono decisamente più confortevoli. In estate (giugno-agosto) di notte e alla mattina presto può far freddo, tranne che nel deserto del Gobi, dove il caldo secco di giorno arriva a 45 gradi, con serate piacevoli.
Come arrivare
Si atterra a Ulan Bator (Ulaanbaatar), la capitale, da cui ci si sposta con mezzi 4×4 affittati sul posto, guidati da autisti visto che, al di fuori della capitale, le strade sono per lo più piste non asfaltate e spesso molto dissestate. Per raggiungere la regione di Bayan-Ölgii occorrono un paio di giorni di viaggio via terra. In alternativa si può volare da Ulaanbaatar fino alla città di Ölgii.
Si vola con Lufthansa, Turkhish Airlines e la compagnia di bandiera MIAT. Sono possibili diverse combinazioni passando da Pechino.