L’acqua arriva da ogni direzione; dall’alto siamo investiti da un muro di pioggia che continua ad aumentare d’intensità, mentre dal basso arrivano gli schizzi del fango sparato dagli pneumatici. I fari del fuoristrada creano un gioco di luci psichedeliche e inquietanti che rendono lo sfondo ancora più cupo e disorientante. Col tramonto abbiamo perso sia le tracce della pista (ormai allagata) sia il contatto visivo con gli altri due mezzi. Navighiamo alla cieca per diverse ore. Ormai disillusi e arresi al pensiero di dover passare la notte accovacciati sui sedili dei fuoristrada non appena il combustibile sarà terminato, ci ritroviamo inverosimilmente nel centro di un campo con il personale schierato di fronte alla porta del ristorante, pronto a servirci la cena. Come sia stato individuato il sito da parte degli autisti, senza alcun tipo di supporto tecnologico, dopo tante ore di viaggio in mezzo al nulla, circondati solo da buio e acqua, resterà per sempre un mistero. Oltre a riconoscere le straordinarie abilità degli autisti, iniziamo a pensare che le divinità locali, molto presenti nella vita dei mongoli, ci siano venute in aiuto. Probabilmente le stesse che le guide ci hanno insegnato a ringraziare ogni volta che incontravamo uno stupa o uno dei tanti cumuli votivi (ovoo). Il rito prevede di camminargli intorno in senso orario almeno per tre volte e di fare una qualsiasi offerta, come una manciata di riso o qualche pietra raccolta dalla strada. Ora che siamo arrivati miracolosamente a destinazione ci spieghiamo le ragioni di tanta devozione da parte del personale che ci accompagna.
Terminata la cena, ci prepariamo ad affrontare l’acquazzone che ci separa dalle nostre ger, (le tende mongole simili alle più note yurta russe). Prima di lasciare il ristorante, propongo ai miei compagni di viaggio di incontrarci all’alba del mattino successivo per andare in cerca di “qualcosa che sicuramente incontreremo”, senza avere idea di cosa potrà essere. Gli sguardi sconcertati e increduli, probabilmente alimentati anche dalla stanchezza e dagli scrosci d’acqua che continuano a giungere dall’esterno, mi lasciano intendere che il gruppo di mattinieri non sarà numeroso. La mia proposta viene presa in considerazione da due di loro che confidano sulla promessa di fargli trovare in cielo completamente libero da nubi.
Il cigolio di tre piccole porte in legno tinte di arancione, come vuole la tradizione, spezza il silenzio mattutino della steppa. Esco dalla tenda dopo aver battuto la testa per l’ennesima volta contro il traversino della piccola entrata. Incrociato lo sguardo dei miei due compagni di fotografia, indico la direzione che prenderemo. Ci muoviamo lentamente, irrigiditi dal freddo, e ci allontaniamo dal campo senza fare rumore per non svegliare chi ha preferito il tepore delle coperte.
Volgiamo lo sguardo vero l’alto e scopriamo un colore che trova la sua unica definizione possibile in “blu cielo Mongolia”. Procediamo fino a raggiungere la cima di una collina da dove si apre uno scenario immenso, nitido, surreale sulla steppa della Mongolia. La dimensione intorno a noi è più simile a quella di un oceano che a quella offerta dagli spazi terrestri. Ad est il sole sta per oltrepassare la linea dell’orizzonte e ad ovest un corso d’acqua zizzaga tra le praterie tagliando in due la steppa. Le alture iniziano a colorarsi quando da dietro una collina, a diversi chilometri di distanza, appare un uomo a cavallo che si dirige verso il fiume. Restiamo immobili, in attesa che soggetti e luci si compongano. Poi arriva il vento, mentre l’uomo e il suo cavallo raggiungono il fiume. Clic, clic, clic…
Il momento dello scatto
Indossati guanti e cappello di lana, ho assicurato l’attrezzatura al cavalletto, senza estenderlo completamente per renderlo più stabile. Ho optato per la ricerca dei dettagli, utilizzando quindi un teleobiettivo. Per via della notevole distanza che mi divideva dal soggetto, ho utilizzato un filtro polarizzatore in modo da ridurre l’effetto foschia e rendere l’immagine più contrastata. In virtù dell’uniformità della luce, ho deciso di affidarmi all’esposizione matrix della mia macchina, per potermi concentrare maggiormente sull’inquadratura e sull’istante. Selezionata la modalità in prioritа di diaframma, ho sottoesposto di – 0,7 EV e impostato l’apertura del diaframma mediamente chiusa (f 14) per sfruttare la massima nitidezza offerta dall’obiettivo. Per via della luce non ancora intensa, ho iniziato a scattare controllando regolarmente che il tempo dell’otturatore non scendesse sotto il cinquantesimo di secondo.
Ancora oggi ricordo quell’attesa come un momento magico, uno dei tanti che ho vissuto grazie alla fotografia, senza la quale probabilmente quel mattino non sarei uscito dalla tenda.
Dati tecnici
Data: 11 Agosto 2007
Corpo macchina: Nikon D2X
Obiettivo: Nikon 80/20 f2,8
Apertura diaframma: F14
Tempo otturatore: 1/50
Compensazione esposizione: – 0,7
Sensibilità sensore: ISO 320
Modo di ripresa: A (priorità di diaframmi)
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