I kazaki hanno ereditato dai cavalieri mongoli la straordinaria abilità a cavallo che hanno unito alla loro tradizionale arte della caccia con l’aquila. Nella prima parte della storia abbiamo seguito Sailow nella sua ultima battuta di caccia alla volpe con l’aquila prima che si chiuda la stagione venatoria.
di Gianluigi Di Maio
Il clima rigido e la vita nomade di questa etnia non favoriscono l’agricoltura e la cucina si basa prevalentemente su carne e latticini. In inverno, si nutrono di grandi animali, come cavalli e cammelli, la cui carne può essere congelata all’aria aperta; nella stagione estiva, non avendo frigoriferi, preferiscono latticini e animali di piccola taglia, come marmotte e capre, che possono essere consumati in pochi giorni.
Ci sediamo tutti intorno a un tavolo e iniziamo a mangiare, con le mani: il capofamiglia taglia i pezzi di carne con il coltello e li distribuisce ai commensali. Inizio a porre domande sulla caccia con le aquile. Sailow, nonostante il magro bottino del suo ultimo giorno di caccia, si ritiene comunque soddisfatto della stagione appena trascorsa, poiché la sua aquila gli ha permesso di catturare tre volpi, con le quali la moglie Panzia potrà confezionare cappotti e cappelli per l’inverno.
L’aquila di Sailow, come tutte le aquile impegnate nella caccia è una burkit, cioè femmina. Le burkit sono più grandi, pesanti e aggressive rispetto ai maschi (sarsha) e, quindi, più adatte alla caccia di grosse prede quali le volpi, le linci e i lupi. Il rapace è uno strumento prezioso per la loro sopravvivenza e per quella della loro famiglia, ragion per cui si stabilisce un forte legame tra uomo e animale, evidenziato anche dai tanti gesti affettuosi che il cacciatore ha verso la propria aquila, quasi fosse un comune animale domestico.
Sono passati cinque anni da quando Sailow ha sottratto la sua aquila dal nido per addestrarla e si augura che potrà rimanere la sua compagna di caccia per tanti anni ancora. Racconta con rammarico che una sua aquila una volta si alzò in volo per una battuta di caccia ma non tornò più. Per settimane Sailow si recò in cima alla montagna per tentare di avvistarla, nella speranza che tornasse. E mentre ricorda, fissa lo sguardo sulla tazza del tè, sorride e mi dice: «Ha preferito la libertà, ne aveva il diritto». In realtà capita spesso che, dopo una decina di anni, all’aquila venga ridata la libertà: forse è un modo per ricompensarla dei tanti servigi.
Una sfrenata passione per i cavalli
Mettiamo da parte l’argomento caccia e sul finire del pranzo Sailow e suoi familiari iniziano a discutere animatamente delle corse di cavalli. Infatti, se dalla cultura kazaka hanno ereditato la tradizionale caccia con l’aquila, dalla popolazione mongola gli deriva l’interesse per i cavalli. Sailow nutre una vera passione per le corse e quest’anno è fiducioso di vincere qualche gara; ha allevato un buon cavallo e ha un ottimo fantino: il nipote Ginals.
Arriva finalmente il giorno della prima fantomatica corsa. La mattina sveglia alle sei. Birkgian sella il suo cavallo, lega alle briglie quello che prenderà parte alla corsa e si mette in marcia; 25 chilometri lo separano dal villaggio della comunità di Khan Hudug dove si svolgerà la sfida. Io e altre quindici persone, tra amici e parenti, lo raggiungiamo dopo qualche ora con un camion, mentre il nipote Ginals ci segue in motocicletta con il cugino Sirkgian. Il punto di ritrovo è su una collina in mezzo al nulla, che a poco a poco si popola di una moltitudine di gente arrivata da tutta la regione. La gara prevede un tragitto da percorrere in andata e ritorno su una distanza di 25 chilometri per i cavalli adulti e di otto per i puledri. Tutti i fantini, ragazzini sotto i quattordici anni, cavalcano senza sella e con briglia senza morso con un’incredibile abilità.
Mi faccio prendere anch’io dall’entusiasmo, incitando i cavalieri, e intravvedo Ginals al comando. Sailow esulta: il nipote e il suo cavallo hanno vinto la gara. Durante la giornata si alternano giochi di lotta, tornei a cavallo, banchetti a base dell’immancabile stufato di montone e bicchieri di vodka, retaggio della dominazione russa. Rimango di nuovo sbalordito dalla loro abilità nel cavalcare quando assisto al gioco del Tenge ilu, durante il quale, al galoppo, i cavalieri si sporgono dal cavallo fino a raccogliere dei sacchetti di riso posti lungo il percorso.
Piccole comunità isolate nella steppa
Queste gare, che si svolgono durante la settimana precedente al Naurus, il capodanno kazako, sono un importante momento d’incontro e confronto per queste persone che vivono per il resto dell’anno isolate in piccole comunità familiari.
La vastità delle sue steppe e le estreme condizioni ambientali fanno della Mongolia la nazione con la minore densità abitativa al mondo, meno di 2 abitanti per chilometro quadrato. Facile pensare che l’eccezionale equilibrio che qui si osserva tra uomo, territorio e natura sia frutto dell’enorme disponibilità di spazi. La vita si svolge con ritmi ben cadenzati, in cui tutte le attività hanno uno spazio e un tempo preciso. Viene da chiedersi se l’ondata di modernità e la crescita economica che sta attraversando in questi ultimi anni la Mongolia avrà effetti anche in queste steppe remote.
Nel frattempo Sailow allena la sua aquila e insegna al figlio Birkgian l’antica arte falconiera. Il prossimo anno sarà lui in vetta alle montagne a scrutare la valle, in sella al suo cavallo e con al braccio l’aquila reale.