Avevo visto passare più automobili in un’ora di traffico al centro di Ulan Baatar che in questi trenta giorni di viaggio che dalla capitale della Mongolia mi hanno portato al confine più occidentale del Paese. Fatico a immaginare la mia reazione quando mi troverò nuovamente circondato da grattacieli e ciminiere. Ora appaiono lontanissimi i concetti di smog, confusione, clacson, semafori e regole stradali. Nella steppa si naviga, non si conduce. La direzione viene data da chi incontri lungo il cammino, nella speranza che abbia davvero capito qual è la tua meta. Poi si seguono le piste e la direzione del sole, mentre in altri casi si può solo fare affidamento al proprio istinto.
Era bastato allontanarmi dalla strada che porta al lago Bajkal, in Siberia, per rendermi conto che il mio sarebbe stato un viaggio nel tempo e non solo nello spazio. Ogni giorno ricevevo un nuovo segnale a conferma di questa mia sensazione. Inizialmente erano stati gli incontri con i pastori nomadi pronti a offrirmi cibo e ospitalità, poi i canti che riecheggiavano all’interno di sperduti monasteri buddisti scampati miracolosamente all’oppressione sovietica e infine gli antichi riti sciamanici degli Uomini Renna.
Sono entrato da pochi giorni nella regione del Bayan-Ölgii, la più lontana della Mongolia dalla capitale. Sono stati i vestiti dei suoi abitanti, i loro occhi azzurri e il tradizionale saluto “salam aleikum” a farmi capire che per i giorni a venire mi sarei trovato per l’ennesima volta proiettato in una nuova dimensione.
All’improvviso ogni traccia della cultura mongola viene soppiantata da quella di origine kazaka. Anche il cibo è diverso, decisamente più vicino ai miei gusti. Alcuni piatti addirittura mi stupiscono, come gli ottimi tsuivan, una sorta di spesse tagliatelle fatte a mano e condite con una salsa che ricorda il nostro ragù, ma con carne e formaggio di capra.
Ma i ristoranti si trovano solo nel capoluogo Ongy, è sufficiente allontanarsi di qualche decina di chilometri dalla città per ritrovarsi totalmente immersi in una natura assoluta e verdeggiante tra cime innevate, laghi color smeraldo e ruscelli cristallini. È questo il regno delle aquile reali, che a turno saranno reclutate per diventare le fedeli compagne dei cacciatori, che a loro volta, in segno di gratitudine, le libereranno dopo alcuni anni di onorato servizio.
Per sopravvivere tra queste montagne è necessario viaggiare in totale autosufficienza: cibo, acqua, tenda e soprattutto carburante per il mezzo.
La meta finale è il Tavan Bogd, la montagna più alta della Mongolia (4,374 m.), al confine con Cina e Russia.
Non ho fretta di raggiungerla, voglio prima conoscere questi luoghi e la loro gente. Questa mattina sono stato svegliato da una folata di vento che ha scosso violentemente la tenda. Il sole era ancora dietro l’orizzonte, ma la sua luce che schiariva il cielo mi ha permesso di mettermi subito in marcia. Da quel momento mi sono fermato infinite volte a fotografare paesaggi straordinari. Le piste risalgono spesso pendii tanto ripidi da mettere in discussione la potenza e l’aderenza del mio Land Cruiser.
Raggiungo a fatica l’ennesima cima quando si apre di fronte a me un nuovo scenario. Sull’altura al versante opposto appare un piccolo insediamento. Scendo dal fuoristrada per individuare una traccia che mi permetta di raggiungerlo. Procedo lentamente, attento a dove metto le ruote. Superato un ultimo tratto in salita mi ritrovo in un piazzale circondato da carri, tende, animali e da una decina di persone che mi dimostrano totale indifferenza. Sono tutti indaffarati a montare le yurta (solo qui le tende si chiamano yurta, mentre nel resto della Mongolia sono chiamate ger).
Dal loro impegno risulta evidente che devono terminare almeno parte del lavoro entro sera. Cerco un contatto, uno scambio, mi avvicino per offrire dei doni, ma nessuno mi degna di attenzione ad esclusione di un paio di sguardi di curiosità. Cambio tattica e mi offro di aiutarli con la costruzione delle tende e il trasporto dei materiali ancora sui carri trainati dagli yak. Gli sguardi si trasformano in sorrisi che a mia volta ricambio. Nasce l’intesa. Non mi chiedono nulla, ma appena intuisco come poter essere utile (possibilmente senza fare danni) parto in azione, senza risparmiarmi.
Intanto i bambini ci guardano e ci girano intorno. È sera, la tenda principale, la più grande è terminata. Al suo interno arde la legna nella pesantissima stufa in ghisa e ogni pezzo d’arredamento è stato posizionato meticolosamente secondo la tradizione. Mi invitano a cenare con loro e mi offrono un tappeto morbido dove dormire. Ma soprattutto condividono con me quel calore umano che non scorderò mai e che contraddistingue tutti i popoli che vivono nelle regioni più remote della Terra.
Il momento dello scatto
Mentre aiutavo a posizionare la struttura perimetrale della yurta un bimbo si avvicinò ad osservarmi. In quel momento non potevo lasciare il mio lavoro perché sarebbe crollata tutta la recinzione. Non mi restava che sperare che il bimbo non si allontanasse in quanto la situazione era decisamente interessante. Iniziai a parlargli (in italiano, intanto nessuna delle altre lingue da me conosciute avrebbe sortito alcun effetto differente) raccontandogli degli animali che incontravo in Africa. Lui si immobilizzò e iniziò a fissarmi negli occhi. Nel momento in cui la struttura risultò sufficientemente solida da sostenersi autonomamente recuperai la mia macchina fotografica che avevo lasciato in terra a pochi passi da me e senza mai smettere di parlare di elefanti, leoni e giraffe scattai quella foto che aveva occupato la mia mente una decina di minuti. Chiusi il diaframma a f13 per avere buona profondità di campo, in modo da evidenziare l’intera struttura in legno e rendere evidenti anche le montagne sullo sfondo. La luce del sole era tanto intensa da permettermi di impostare la sensibilità minima offerta dalla mia macchina fotografica (iso 100) e di fare affidamento a un tempo di scatto sufficientemente rapido da evitare ogni rischio di effetto mosso (1/100’). Poi mi posizionai in modo tale che entrambi gli occhi del bambino risultassero visibili, che la struttura in legno e le sue ombre riempissero l’immagine in modo armonioso ed equilibrato e che lo sfondo dei prati e delle montagne potesse completare l’immagine raccontando il contesto di quel momento.
Dati tecnici
- Data: 07/07/2007
- Corpo macchina: Nikon D2x
- Obiettivo: Nikkor 17/55 F2,8
- Lunghezza focale al momento dello scatto: 17 mm
- Apertura diaframma: F 13
- Tempo otturatore: 1/100 sec.
- Compensazione esposizione: 0
- Sensibilità sensore: ISO 100
- Modo di ripresa: A (priorità di diaframmi)
VIAGGI FOTOGRAFICI di Davide Pianezze:
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