È ormai noto che la continua crescente domanda di materie prime per sostenere un’economia, quella cinese, in costante espansione da quasi un ventennio (era il 2001 quando la Repubblica Popolare Cinese entrava ufficialmente nell’Organizzazione per il Commercio Mondiale –WTO e da allora il suo PIL è più che decuplicato) per soddisfare le esigenze in continua crescita di una popolazione di 1,4 miliardi di persone, sta letteralmente portando alla vendita (o svendita) di intere regioni o addirittura nazioni e delle loro risorse naturali.
I boschi siberiani e vaste aree dell’Amazzonia per il legname; il Perù e altre aree del Sudamerica per terreni per allevamenti intensivi ed agricoltura; l’Angola, il Congo e il Camerun sempre per i minerali e ancora per il legname. Un po’ dappertutto per petrolio e gas.
Scrive lo scienziato australiano William Laurance, della James Cook University, esperto di biodiversità che ha studiato negli ultimi 35 anni in moltissime regioni del mondo «Ho visto molte cose : alcune buone, altre incredibili, alcune strazianti. Ma non ho mai visto una nazione che ha un impatto così schiacciante sulla Terra come ora la Cina. In tutto il mondo, in quasi tutti i continenti, la Cina è coinvolta in una serie vertiginosa di progetti di estrazione di risorse, energetici, agricoli e infrastrutturali – strade, ferrovie, dighe idroelettriche, miniere – che stanno scatenando danni senza precedenti per gli ecosistemi e la biodiversità. Questo attacco sarà probabilmente facilitato dalla politica anti-ambientale e dal crescente disimpegno a livello internazionale dell’amministrazione Trump».
Ma l’ambito che più sta soffrendo dell’ingordigia cinese e della sua distruttiva ed efficiente organizzazione per accaparrarsi in modo intensivo risorse naturali, è probabilmente il mare.
I cinesi stanno letteralmente “dragando” tutto ciò che è possibile estrarre dagli oceani, che si accaparrano senza alcune rispetto per la Natura e spesso neppure dei confini delle nazioni, come è successo nel Mar della Cina e al largo della Corea del Nord.
Forti di una flotta d’altura organizzata in modo quasi militare e dai numeri strabilianti (i dati del Overseas Development Institute parlano di 17 mila imbarcazioni, contro i circa 300 dell’intera flottiglia statunitense di alto mare. Tuttavia fonti non confermate stimano il numero dei pescherecci cinesi in 200-800 mila imbarcazioni, ovvero quasi la metà dell’intero parco mondiale) i cinesi non si fermano davanti a niente.
Il caso più emblematico, per un ambientalista, è quello recentissimo delle isole Galapàgos, nei cui mari, dall’inizio dell’estate, almeno 300 pescherecci di Pechino stanno pescando tutto il pescabile in acque internazionali al limite del confine con l’area protetta (che come noto, pur appartenendo all’Ecuador, è a 1000 chilometri dalla costa).
La concentrazione e il modo di operare di queste grosse navi, che possono contenere sino a 1000 t. di prodotto, fa pensare a una campagna di lungo periodo. Infatti dietro ai pescherecci-razziatori si sta muovendo una vera e propria città galleggiante di supporto logistico. Tra questi una grande nave-cisterna per rifornire di carburante le navi più piccole e diverse speciali vascelli-fabbrica per lavorare direttamente in mare il pesce, surgelarlo e permettere ai pescherecci di riprendere al più presto la caccia.
Solo a settembre la flotta “pirata” ha operato per oltre 73 mila ore di pesca intensiva, ha denunciato l’Associazione ambientalista Oceana, violando le norme internazionali contro l’eccessivo sfruttamento del mare. Quito ha chiesto aiuto agli Stati Uniti, ma come noto non è certo un buon momento nei rapporti tra le due superpotenze e i cinesi proseguono imperterriti il loro programma di sfruttamento intensivo del pianeta.
Spostandosi in altre aree quando quelle spremute come un limone esauriranno le loro risorse: proprio come le locuste.
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