Per esplorare le radici evolutive della nostra capacità di risolvere i conflitti e di ripristinare relazioni pacifiche, un team italo-etiope guidato dalla professoressa Elisabetta Palagi dell’Università di Pisa studierà le scimmie gelada, come specie modello per la risoluzione dei conflitti, un argomento mai esplorato prima.
La specie umana è capace degli atti più violenti mai registrati in natura, tuttavia, è poi anche in grado di risolvere i conflitti e di ripristinare relazioni pacifiche. Questa capacità che ci permette di vivere in società complesse ha delle radici evolutive che è interessante studiare.
Il progetto intitolato “Science for reconciliation: What an Ethiopian monkey tells us about peace-making” dell’Università di Pisa è l’unico italiano i 24 finanziati dalla Leakey Foundation, istituzione nata nel 1968 con l’obiettivo di aumentare conoscenza e comprensione delle origini umane, dell’evoluzione, del comportamento e della sopravvivenza.
Il team dell’Ateneo pisano in collaborazione con il gruppo della professoressa Bezawork Afework della Addis Ababa University lavorerà in un’area non protetta intorno a Debre Libanos in Etiopia per raccogliere dati comportamentali e genetici sulle scimmie gelada, una specie di primate endemico etiope che vive in società complesse con gruppi che si associano a differenti livelli gerarchici. Questa struttura sociale, simile alla nostra, rende il gelada un buon modello per studiare la risoluzione naturale dei conflitti all’interno e tra i gruppi.
«Vogliamo indagare le tattiche comunicative multimodali utilizzate durante i conflitti intergruppo e la tendenza soggettiva a mettere in atto comportamenti cooperativi e riparatori in base alla parentela, al sesso, al rango gerarchico» spiega Elisabetta Palagi.
«L’obiettivo è ambizioso e speriamo di poterlo raggiungere arrivando anche a costituire un team di ricerca a lungo termine composto da studiosi etiopi e italiani. Da questo punto di vista, lo scopo generale del progetto va anche oltre i risultati scientifici, puntando a costruire una vera e propria piattaforma cooperativa che coinvolge un paese africano e uno europeo» conclude la ricercatrice.
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