Quando mi capita di tornare nei luoghi dove sono nato e ho trascorso la mia infanzia, tutto mi appare a tratti uguale eppure così diverso. Le strade che percorro sono le stesse e anche la scuola, le chiese e il cielo fra i due campanili principali paiono immutati. Però non ci sono più le botteghe di un tempo e i campi che s’insinuavano quasi fin dentro il centro abitato ora sono invasi da anonimi fabbricati.
Mi sforzo allora di accettare quei cambiamenti senza giudicarli, esattamente come accolgo le trasformazioni sul mio volto lavorato dagli anni che passano inesorabilmente. Però non posso fare a meno di pensare che era bello il mio paese negli anni Sessanta e Settanta. Forse più semplice, ma lieto. Il tenore della vita di chi ci vive oggi appare decisamente migliore, almeno se si soppesa con i parametri esteriori della ricchezza. Per le vie sfrecciano auto potenti e costose, le persone sfoggiano vestiti sempre alla moda e il numero delle banche e delle agenzie immobiliari inducono a credere che di soldi ne girino parecchi.
Eppure, certamente complice l’età, mi trovo sempre a rimpiangere gli orti perduti, dove da ragazzi ci si intrufolava a rubare qualche frutto, i pomeriggi nei cortili a sfinirsi con interminabili partite di calcio, le corse in bicicletta verso quella campagna che ora non c’è più, i papaveri che punteggiavano i prati, il folto degli alberi – ma a pensarci bene tanto folto non era già allora – che fiancheggiava il torrente.
Ero felice. Ma allora come potevo saperlo?
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