Alle porte di Milano, da tempo, sono tornate a nidificare le cicogne. E sono almeno quattro anni che ogni primavera “sorveglio” un nido, nella campagna compresa tra i navigli Grande e Pavese. Mi reco sul luogo in bicicletta, una o due volte al mese, per controllare che tutto fili liscio e per godermi lo spettacolo.
Il groviglio di rami e canne, posto su un alto palo all’interno di un piccolo boschetto, è facilmente visibile. Però mi è capitato solo due volte di incontrare altre persone dirette ad osservare il nido: una famiglia con bambini un paio di stagioni fa, una giovane coppia di stranieri l’altro ieri. Eppure la strada che corre poco vicino è largamente percorsa da automobili dirette a un vicino centro di pesca sportiva.
Un’ampia parte degli italiani non ama la natura, o comunque dimostra disinteresse nei suoi confronti. Qualsiasi riflessione sull’inarrestabile decadenza del nostro sistema di aree protette dovrebbe partire da qui. Altrimenti tutto diventa facile populismo. L’antipolitica è un virus che si diffonde con grande facilità nel nostro Paese, soprattutto tra coloro che mostrano le stesse debolezze dei politici.
I parchi nazionali e regionali e tutte le altre forme di protezione della natura, del paesaggio e del territorio sono sempre stati al centro di accese polemiche, perfino nel periodo aureo dei parchi stesso, quello che va dalla metà degli anni Settanta alla metà degli anni Novanta. Fu in quel momento che un vasto movimento di opinione spinse l’Italia a superare il 10% di superficie protetta: i parchi nazionali passarono da appena 4 a 23, i parchi e le riserve regionali si moltiplicarono.
Questa crescita, però, fu spesso accompagnata da aspri conflitti fra politici di una parte e dell’altra, e anche, forse soprattutto, fra le popolazioni locali e i governi – nazionali, regionali o provinciali – accusati di imporre vincoli e limitazioni allo sviluppo attraverso le norme di salvaguardia. Non sono questioni vecchie e superate. Questo antagonismo non si è mai spento totalmente, al più si è sopito.
Sebbene negli anni Ottanta e Novanta sia cresciuto l’impegno per trasformare i parchi in strumenti di tutela complessiva dell’ambiente, nei quali sia possibile sperimentare modelli alternativi di sviluppo, mettendo in relazione gli obiettivi della conservazione con quelli dello sviluppo locale, è sopravvissuto un diffuso malcontento verso di essi. Per molti, politici compresi, non sono mai diventati efficaci strumenti di governo territoriale, piuttosto sono rimasti isole belle, ideate per soddisfare gli impulsi romantici di una élite.
A nulla o a poco è valso citare l’esempio di altri Paesi, Stati Uniti prima di ogni altro, dove quello dei Parchi non è solo un efficace sistema di protezione di ampie porzioni di natura, ma è anche una vera e propria industria che genera occasioni di lavoro e sviluppo. E ancora meno è servito mettere in luce le esperienze italiane dove, seppure in proporzioni più modeste, si è affermato lo stesso fenomeno, offrendo ai residenti insperati benefici sociali, culturali ed economici. Laddove per decenni erano prevalsi abbandono e occasioni perdute, proprio grazie alla presenza dei parchi si sono aperti provvidenziali orizzonti. A quel punto le aree protette sembravano essere diventate rossore di nuove albe, teatro di prospettive rigenerate e rilancio di speranze. E invece…
Invece un’ampia parte degli italiani non ama la natura, ma i soldi facili. Quelli che si fanno con cemento, lottizzazioni, case di dubbio gusto e facili autorizzazioni, opere pubbliche inutili, un mix di connivenze in cui prolifera il malcostume. Per sostenere l’economia di un’intera comunità attraverso la valorizzazione delle proprie tradizioni culturali e delle bellezze naturali e paesaggistiche occorrono impegno, idee e tempo. Altre soluzioni di “sviluppo” sono molto più semplici da praticare.
Dunque non c’è granché da meravigliarsi se i parchi naturali italiani sono precipitati in una spirale di crisi crescente. Da conquista di civiltà a simbolo del declino. A chi si è illuso, pensando che fosse sufficiente superare il berlusconismo per ridare slancio alle aree protette, la realtà odierna appare ancora più triste. Il quadro di crisi si è aggravato e non ci sono segni in controtendenza. Anzi, il nemico dei parchi si è fatto più subdolo. Adottando la stessa strategia di marketing delle multinazionali dell’agroalimentare, che si sono impadronite delle parole d’ordine dei contadini – genuino, biologico, chilometro zero – i governanti di oggi si riempiono la bocca di espressioni vuote come “presidi di tutela”, “matrici di identità”, “strumenti di sviluppo” quando parlano di parchi – poche volte per la verità – salvo poi ferirli con scelte urbanistiche spregiudicate, strangolarli nelle restrizioni finanziarie, sotterrarli nell’oblio.
È in corso un lucido e premeditato smantellamento degli strumenti di salvaguardia del territorio. I segnali sono molteplici: tagli delle risorse, decapitazione dei vertici, nomine vergognose nei consigli direttivi, lo storico Parco dello Stelvio degradato a spezzatino fra Lombardia e Province Autonome. Su tutto questo incombe l’abolizione della secolare autonomia di un fondamentale corpo di tutela ambientale come il Corpo Forestale per metterlo sotto il controllo dei Carabinieri.
Il ministero dell’Ambiente non c’è più, almeno nei fatti. Passano indisturbati provvedimenti che aggrediscono ciò che resta del Belpaese. Le Regioni, anche quelle che nei decenni passati si erano distinte per intraprendenza, stanno rivedendo al ribasso le proprie normative.
Perfino la spinta propulsiva delle associazioni, in particolare Italia Nostra, WWF, Legambiente e CAI, che fra gli anni Ottanta e Novanta diede un contributo decisivo alla nascita dei nuovi parchi e all’approvazione della legge quadro, sembra essersi appannata. In tempi più recenti è particolarmente attivo il Comitato per la Bellezza, ma la sua voce resta inascoltata. Quella degli ambientalisti è una crisi dentro la crisi, che in parte si nutre delle scorie della seconda. Siede in parlamento, al quarto mandato, l’ex presidente di una delle maggiori associazioni, ma questo non gli ha impedito di votare il provvedimento riguardante la Forestale ricordato poco sopra.
Si sostiene che i visitatori dei nostri Parchi siano circa 32 milioni. Questi dati suscitano sempre qualche perplessità, perché non sono mai chiariti i modi con cui vengono raccolti e vagliati. Ma se anche fossero solo la metà, verrebbe comunque da domandarsi per quale ragione stiamo gettando al vento questo enorme patrimonio. Poi si dovrebbe indagare meglio per capire quanti di quei visitatori sono attratti da forme di turismo invadenti. E qui si apre il tema della aree protette intese come luna-park.
Ci fermiamo qui, perché al punto in cui siamo precipitati è già importante tornare a parlare di parchi. Confrontarsi, scontrarsi, litigare, ma almeno non diamoli già per scomparsi.
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