È notizia recente la presa di posizione del Governo britannico che ha deciso di vietare l’uso di microplastiche nei cosmetici, o almeno in una parte di essi, come dentifrici, saponette e shampoo. Per gli altri, dalle creme ai prodotti per il make-up bisognerà aspettare che l’industria dei cosmetici studi e trovi alternative economiche ai prodotti attualmente in commercio (il 90 per cento utilizza microplastiche), come se ci fosse ancora tempo da perdere prima di correre ai ripari.
Le microplastiche, infatti, non provengono solo dai cosmetici, ma da tantissimi altri oggetti e prodotti che, in maniera chimica o meccanica si deteriorano diventando frammenti di materiale plastico più piccoli di 5 mm spinti dalle correnti in ogni angolo del pianeta. Si parla di 300 miliardi di pezzi di microplastica soltanto nell’oceano Artico. Questi frammenti hanno in mare un impatto devastante per la fauna e ciò è evidente anche in Mediterraneo.
«Gli ultimi studi – spiega Cristina Fossi dell’Università di Siena e responsabile del progetto Plastic Buster volto a studiare e mitigare il fenomeno – hanno mostrato che nel nostro mare non solo il 70-80 per cento di questi rifiuti è costituito da plastiche di varie dimensioni, ma che i livelli di microplastiche (0,62 particelle di microplastica per metro cubo) sono simili alle 5 zone oceaniche dove a causa delle correnti si concentrano grandi quantità di spazzatura, unite quasi a formare vere e proprie isole. A seguito di questi risultati, nel 2011 l’Università di Siena ha avviato il primo lavoro al mondo sugli effetti delle microplastiche sui filtratori. Molti organismi, infatti, a partire dalla cozza, si alimentano filtrando l’acqua, ma nei casi di grandi animali, ad esempio una balena, che filtra 70 mila litri d’acqua alla volta, o uno squalo elefante, le percentuali di plastiche assorbite sono sicuramente molto elevate (si ipotizza circa 100 mila micro particelle al giorno). E in Mar Ligure, cuore del Santuario dei cetacei, i livelli di microplastiche sono 7 volte maggiori rispetto, per esempio, alle acque della Sardegna (oltre la metà dei campioni di plancton superficiale prelevati in Liguria contenevano plastica – ndr).
Gli effetti delle microplastiche sull’ecosistema
Effettuando studi sui campioni di animali spiaggiati e sani abbiamo appurato che le microplastiche hanno, in primis, un effetto meccanico-fisico sugli organismi ma anche, una volta metabolizzate, un effetto tossico. Le plastiche, infatti, contengono additivi per renderle più elastiche, gli ftalati, che sono dei distruttivi endocrini, vale a dire che interferiscono sul sistema riproduttivo degli animali. Inoltre, sulla superficie dei pezzi di plastica si concentra una grande quantità di inquinanti e agenti patogeni, virus e batteri: 1 milione di volte in più rispetto a una pari quantità d’acqua. E, una volta ingeriti, trasmettono malattie e agiscono sul sistema immunitario degli organismi che le ingeriscono. Le microplastiche si concentrano proprio nelle aree di convergenza di correnti superficiali e profonde, insieme al plancton, esattamente dove vanno ad alimentarsi le balenottere, mentre le plastiche più grandi si depositano nei canyon sottomarini dove si cibano altri due grandi cetacei: capodogli e zifii. Non a caso nel contenuto stomacale di animali spiaggiati appartenenti a queste specie la percentuale di plastiche è elevata anche se non per forza è la causa di morte».
Gli effetti della plastica e dei suoi componenti, dunque, non agiscono solo sulle balene, ma anche su altri grandi predatori come tonni e pesci spada in cui, così come per il mercurio, si accumulano le sostanze tossiche che, alla fine del giro, tornano sulla nostra tavola. Gli effetti sull’uomo si vedranno solo nel tempo ma, nel frattempo, continuiamo pure a usare creme a base di microplastiche…
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