Uno dei pochi aspetti positivi della questione Covid è la riscoperta delle cosiddette aree interne e marginali, ovvero quelle zone, situate in grande prevalenza lungo l’Appennino o sulle preAlpi, in cui da anni è in corso un costante e progressivo spopolamento a causa della scarsità di servizi essenziali e di lavoro, accentuato in alcuni comprensori (es. nel famoso “cratere” sismico del 2016 in Umbria e Marche) da eventi ulteriori, in genere di tipo calamitoso, come terremoti o frane.
Complice la diffusione di Internet, la possibilità di lavorare a distanza in smart-working e, soprattutto, l’insofferenza a trascorrere periodi più o meno lunghi di quarantene in case senza giardini o sbocchi esterni, sempre più persone, soprattutto nelle grandi città, stanno riscoprendo le seconde case o addirittura prevedendo l’acquisto/ristrutturazione di casali e rustici in campagna, dove trasferirsi in maniera stabile.
Lo conferma anche il mercato immobiliare, che vede un boom di transazioni e di richieste, dopo anni di stagnazioni, in aree come la Sabina e la provincia di Rieti (a poca distanza, dunque, dalla capitale) o in Oltrepò pavese, in Val trebbia (PC), nel Monferrato e nelle Langhe, ovvero in collina ma in un raggio di 100 chilometri o poco più da metropoli come Milano o Torino.
Un’ottima occasione non solo per cambiare vita in direzione di una migliore qualità della stessa e magari in modo più ecosostenibile, ma soprattutto per rivitalizzare e consentire una vera e propria rinascita di territori quasi sempre bellissimi, ma che da tempo soffrono il grave problema dell’abbandono. Con tutto ciò che ne consegue, tra cui in primis la progressiva scarsa manutenzione e controllo di tali aree.
Si è parlato di ciò nell’interessante convegno (sempre in modalità online) che ha concluso il programma “AttivAree. Un disegno di rinascita delle aree interne”, finanziato dalla Fondazione Cariplo e dove è anche stato presentato l’omonimo volume di Giorgio Osti ed Elena Jachia, edito da Il Mulino.
Si tratta di un Programma intersettoriale, partito nel 2016, mirato a riattivare le aree montane dell’Oltrepò Pavese e delle Valli Trompia e Sabbia. In questi anni, i territori hanno aumentato la loro forza attrattiva nei confronti dei residenti, dei potenziali investitori e dei poli urbani di riferimento, facendo leva sulle risorse delle comunità.
Con questa crisi, ancor di più, sembra che si sia innescato una sorta di cambiamento, in senso positivo, innanzitutto della percezione sulle aree interne. Ora viste, soprattutto da un’utenza cittadina, non più come zone carine ma in sostanza un po’ “sfigate” dove andare solo per brevi periodi, ma come possibili rifugi o comunque zone di miglior qualità dove ripensare la propria vita. E ciò non solo in una logica “anti-Covid”, ma anche pensando ai cambiamenti climatici in corso.
Nel seminario di AttivAree si è dunque parlato di tutto ciò e di molto altro. Ad esempio di come questo approccio sta cambiando il concetto stesso di centro e periferia, di un approccio relazionale più che oggettuale o puramente spaziale e di come in realtà per certi aspetti sia sempre più difficile capire dove finisce la campagna e comincia la città. Con quest’ultima che, grazie soprattutto all’espandersi di determinati servizi (es. banda larga), si allarga e diffonde in una sorta di “urbanità tentacolare” che finisce con l’avvolgere anche le aree interne.
Si è poi parlato molto di turismo di prossimità, di turismo esperienziale, dolce. Così come di accoglienza diffusa e di qualità e di come tutto ciò vada sempre di più quasi oltre al concetto stesso di turismo, riducendone l’estraneità al territorio e dove il visitatore in realtà sempre di più partecipa attivamente ai processi ed allo sviluppo del territorio stesso.
Sono state poi presentate alcuni percorsi esperienziali diffusi molto interessanti e di come vi sia la preoccupazione di rendere stabili e con un futuro i risultati ottenuti da questo ed altri progetti, mettendo anche a sistema (e in rete) e a confronto queste singole attività ed esperienze.
In generale è emersa comunque la necessità di un cambio di paradigma e l’attuazione, attraverso “bolle di eccellenza” riproducibili, di un nuovo modello di sviluppo, basato anche su una nuova concezione di modernità. Che tra l’altro sia in grado di superare una volta per tutte la burocrazia, ovvero il maggior pericolo, temutissimo, che può davvero decidere il successo o il fallimento di questi progetti di rinascita.
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