A Iago
In questi ultimi decenni, la scienza ha fatto passi da gigante e ha potuto dimostrare come animali e piante siano creature senzienti e intelligenti. Senza aggiungere “a loro modo”, perché lo sono e basta. Che poi noi facciamo fatica a riscontrare tale intelligenza, non è di certo un limite del mondo animale e vegetale.
Se però dobbiamo essere sinceri, alcuni fra noi sono ben consapevoli che non serviva la scienza per capirlo, semmai per confermarlo o studiarlo per migliorare la nostra conoscenza della Natura.
Ma chi vive insieme ad essa con profondo rispetto, con commozione di fronte ai suoi miracoli, con un rapporto simbiotico, ha sempre percepito profondamente che il legame che si può instaurare con un animale ha radici incredibilmente salde e più umane di quanto ci si possa aspettare.
Molte volte sarà capitato di sentirci più compresi da un qualche compagno a quattro zampe rispetto ad alcuni esseri bipedi che credono di potersi definire umani. Spesso è difficile da dimostrare quanto il rapporto con un cane, ad esempio, possa essere sincero, puro, amicale; viene in soccorso la scienza con i suoi test, ma se non lo hai provato nelle tue vene, non puoi forse coglierlo davvero.
Perché quando i tuoi occhi incrociano quelli di un animale, passa qualcosa di importante, siamo tutti creature che vivono in questo meraviglioso mondo ed è inevitabile non entrare in connessione con tutto e tutti, sempre che si alzino determinate antenne naturali.
Proprio questo rapporto maturò fra Odisseo e Argo. Il famoso passo dell’Odissea riporta l’ultimo incontro dell’eroe con il suo cane. Sono passati vent’anni e Argo è il primo (l’unico all’inizio) che riconosce Odisseo, senza alcun dubbio. Questo episodio deve essere letto con il massimo rispetto, perché quel cane di nome Argo non ha messo cartelli pubblicitari per vantarsi di quanto fosse bravo, non ha voluto mettersi sotto i riflettori, ma ha fatto capire che aveva capito e sentito che fosse il suo antico amico e padrone scodinzolando e abbassando le orecchie. Purtroppo a causa della malattia non poté corrergli incontro, ma Odisseo piange di fronte a questa manifestazione di amore da parte di Argo. Un cane che aspettò fedele il ritorno di Odisseo per salutarlo un’ultima volta.
Sì, perché gli animali fanno anche questo, soffrono in silenzio e sanno aspettare il momento giusto, lo sanno e basta. Non è sempre necessario investigare il motivo razionale, forse perché non sempre c’è; è come l’amore dell’uomo, non lo puoi analizzare al microscopio, poiché non è analizzabile, si ama e basta.
Perciò, vale davvero la pena, in questo nostro mondo, amare tutti: esseri umani, animali e piante, incondizionatamente, proprio come Argo, il quale senza condizioni amò Odisseo, senza chiedere nulla in cambio.
Così essi tali parole fra loro dicevano:
e un cane, sdraiato là, rizzò muso e orecchie,
Argo, il cane del costante Odisseo, che un giorno
lo nutrì di sua mano (ma non doveva goderne), prima che per
Ilio sacra partisse;
e in passato lo conducevano i giovani
a caccia di capre selvatiche, di cervi, di lepri;
ma ora giaceva là, trascurato, partito il padrone,
sul molto letame di muli e buoi, che davanti alle porte
ammucchiavano, perché poi lo portassero
i servi a concimare il grande terreno d’Odisseo;
là giaceva il cane Argo, pieno di zecche.
E allora, come sentì vicino Odisseo,
mosse la coda, abbassò le due orecchie,
ma non poté correre incontro al padrone.
E il padrone, voltandosi, si terse una lagrima,
facilmente sfuggendo a Eumeo; e subito con parole chiedeva:
«Eumeo, che meraviglia quel cane là sul letame!
Bello di corpo, ma non posso capire
se fu anche rapido a correre con questa bellezza,
oppure se fu soltanto come i cani da mensa dei principi,
per splendidezza i padroni li allevano».
E tu rispondendogli, Eumeo porcaio, dicevi:
«Purtroppo è il cane d’un uomo morto lontano.
Se per bellezza e vigore fosse rimasto
come partendo per Troia lo lasciava Odisseo,
t’incanteresti a vederne la snellezza e la forza.
Non gli sfuggiva, anche nel cupo di folta boscaglia,
qualunque animale vedesse, era bravissimo all’usta.
Ora è malconcio, sfinito: il suo padrone è morto lontano
dalla patria e le ancelle, infingarde, non se ne curano.
Perché i servi, quando i padroni non li governano,
non hanno voglia di far le cose a dovere;
metà del valore d’un uomo distrugge il tonante
Zeus, allorché schiavo giorno lo afferra».
Così detto, entrò nella comoda casa,
diritto andò per la sala fra i nobili pretendenti.
E Argo la Moira di nera morte afferrò
appena rivisto Odisseo, dopo vent’anni.
Odissea, XVII, 290-327