Fu durante il mio primo viaggio in Namibia che mi innamorai dell’Africa, innamoramento che contribuì a cambiare radicalmente il corso della mia vita. Tornato in Italia non riuscivo a pensare ad altro, mi nutrivo di documentari sugli animali della savana e quando mostravo agli amici le foto di quella vacanza, sentivo la gola bloccarsi per l’emozione.
Da allora ho percorso più volte le piste della Namibia, esplorandola da Nord a Sud e da Est a Ovest, non più come turista ma come fotografo. In tutti questi anni ho continuato ad amarla, ma l’ho anche odiata profondamente per i suoi contrasti sociali e per le iniquità che porta dentro sé.
L’unica regione che non conosco ancora è il Caprivi, una sottile striscia di terra che, prolungando i limiti del Paese verso est, raggiunge i confini dello Zambia. Fino a qualche anno fa era una zona off-limits per via della presenza di bombe antiuomo risalenti alla guerra degli anni Settanta-Ottanta tra sudafricani e milizie locali, che agivano per l’indipendenza del loro Paese con il supporto dell’esercito Angolano. Ora che quasi tutta la regione è stata dichiarata Parco nazionale si dice che i territori siano stati bonificati.
Attraversando il Caprivi…
Partito poco più di un mese fa da Cape Town, la mia meta è uno dei Paesi più settentrionali dell’Africa australe. Forse sarà lo Zambia o forse lo Zimbabwe o il Malawi, tutto dipenderà da cosa incontrerò lungo il cammino. Per ora l’unica certezza è un biglietto aereo per il mio rientro in Europa previsto a fine settembre.
Lascio il camp all’alba per raggiungere la B8, strada statale che attraversa tutto il Caprivi fino alla cittadina di Katima Mulilo.
Percorsi una decina di chilometri, vengo fermato da un gruppo di ragazzini con una cartella in spalle. La più grande avrà circa quattordici anni, mentre il più piccolo al massimo otto. Mi chiedono di portarli alla loro scuola. Mi volto e guardo i sedili posteriori del mio fuoristrada colmi di attrezzatura da campeggio, macchine fotografiche, ecc. Mi rendo disponibile, ma non posso offrire altro che il posto singolo al mio lato. Urlano, si arrabbiano, dicono che sulla strada passano pochissime macchine e che anche se loro sono in sette possono stringersi e viaggiare tutti con me. Naturalmente rifiuto per questioni di sicurezza e ribadisco la mia disponibilità a trasportare uno di loro.
Insistono senza ascoltare ragioni, così, un po’ amareggiato per non poterli aiutare, ingrano la prima e avanzo lentamente fino a quando la ragazzina più grande urla di fermarmi per far salire uno di loro. Mi arresto e apro la portiera, intanto il più piccolo del gruppo si avvicina. Gli altri lo aiutano a raggiungere il sedile dove si aggiusta senza nemmeno togliersi la cartella dalla schiena. È piccolino, ben più piccolo della sua cartella. Con una mano sollevo il suo voluminoso bagaglio dalla maniglia centrale e con l’altra gli sfilo gli spallacci. Lui mi osserva senza dire una parola. Chiamo la ragazzina e le chiedo dove devo lasciarlo. Lei si rivolge al piccolo in lingua locale e poi mi dice de non preoccuparmi, sarà lui ad avvisarmi. Saluto e partiamo.
Poco dopo chiedo al bambino come si chiama, lui mi guarda fisso negli occhi e non dice una parola. Allora gli chiedo quanti anni ha, ma lui mi riguarda fisso negli occhi e non dice una parola. Resta immobile, aggrappato con entrambe le manine al maniglione del fuoristrada e con lo sguardo rivolto verso di me. Gli offro una caramella (rigorosamente senza zucchero) per “cambiare discorso”, lui la prende, la scarta e la mette in bocca.
Sono trascorsi circa quindici minuti dal nostro incontro e non sono ancora riuscito a fargli dire una parola. Ripenso al momento in cui gli aveva parlato la ragazzina, alla quale lui aveva risposto solo con uno sguardo. Rifletto sulla situazione e decido di non fare più domande per non rischiare di metterlo in difficoltà. Intanto il tempo passa e la striscia d’asfalto continua a correre velocemente sotto di noi.
Percorsi una cinquantina di chilometri inizio a pensare che la scuola è davvero lontana. Raggiunti i sessanta chilometri guardo il bambino e gli chiedo quanto manca per arrivare alla scuola, ma lui mi guarda nuovamente fisso negli occhi e non dice una parola. Al lato della strada non si vede altro che un fitto bosco di acacie e di mopane. Ogni singolo chilometro registrato dal tachimetro fa aumentare la mia apprensione. Settanta, ottanta, novanta chilometri percorsi e ancora nessun segno di vita. Mi rivolgo nuovamente al bimbo, ma la sua reazione non cambia. Gli offro un’altra caramella, lui la afferra e la mette in tasca. I miei pensieri si fanno sempre più tormentati. E se trovo un posto di blocco? Cosa dico alla polizia? Potrebbero accusarmi di sequestro di minori…
Raggiunti i cento e dieci chilometri da quando ci siamo incontrati mi rendo conto che la situazione è davvero seria. Arrivato a Catima Mulilo andrò direttamente al centro di polizia a lasciare il ragazzino che forse ha deciso di trascorrere i prossimi mesi con me in giro per l’Africa invece di andare a scuola. Intanto lui continua a fissarmi.
Percorriamo ancora alcuni chilometri quando all’improvviso urla “stop, stop!”. Inchiodo e mi guardo intorno. Ancora boscaglia, solo boscaglia e niente altro. Lui afferra la maniglia della portiera, la apre e si cala giù. Intanto appaiono come per magia alcune persone. Mi rivolgo a loro, sono tutti di origine san (boscimani), e gli spiego che ho portato il bimbo a scuola. Uno di loro gli si avvicina e lo prende per mano, il bambino sembra riconoscerlo. Mi ringraziano senza aggiungere altro e come sono apparsi scompaiono tra gli alberi della boscaglia.
Riparto un po’ turbato da quanto accaduto e dopo pochissimi chilometri incontro altre persone. Sono pastori e stanno viaggiando a bordo di sgangherati carretti di legno con le loro vacche. Li sorpasso e mi arresto per scattare qualche foto. Mi salutano, senza fermarsi, immersi dal polverone sollevato dagli zoccoli del bestiame. Sono tutti giovanissimi che, invece di andare a scuola, sono obbligati a lavorare. Resto fermo ad osservarli, mentre il ragazzino più giovane, che conduce l’ultimo carretto, si gira verso me e mi fissa negli occhi.
Il momento dello scatto
Quando vidi quella piccola carovana e il polverone che sollevava, intuii che si sarebbero create delle condizioni fotografiche interessanti. Cercai quindi di previsualizzare ciò che avrei potuto cogliere. Li attesi frontalmente e studiai la composizione, giocando con la coreografica forma delle corna delle vacche. Ma fu mentre si allontanavano che si manifestò ciò che stavo cercando. Avevo tra le mani il teleobiettivo per cercare dettagli e “schiacciare” gli elementi, quando il ragazzino si voltò per un istante e mi fisso. I suoi occhi, nonostante risultassero infinitesimamente piccoli in quel contesto, rubavano la scena a tutto ciò che li circondava. Erano un soggetto così forte che avrebbero attirato l’attenzione anche se inquadrati ai margini più estremi dell’inquadratura, lasciando spazio per riprendere ciò che stava accadendo intorno.
Impostai l’apertura del diaframma tenendo in considerazione l’effetto sfocato desiderato dello sfondo e la distanza tra il soggetto principale (che avrei messo a fuoco) e ciò che stava alle sue spalle. Poi verificai che il tempo di scatto dell’otturatore fosse sufficientemente veloce per non ottenere un risultato mosso (scattavo a mano libera), infine regolai di conseguenza la sensibilità (ISO) del sensore.
Dati tecnici
- Data: 19/07/2008
- Corpo macchina: Nikon D300
- Obiettivo: Nikon 80/200 f2,8
- Lunghezza focale al momento dello scatto: 200 mm
- Apertura diaframma: F 8
- Tempo otturatore: 1/320 sec.
- Compensazione esposizione: 0
- Sensibilità sensore: ISO 250
- Modo di ripresa: A (priorità di diaframmi)
VIAGGI FOTOGRAFICI di Davide Pianezze:
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