Dagli specchietti retrovisori vedo solo l’immenso polverone lasciato dagli pneumatici del mio fuoristrada. È come se tutto ciò che ho di fronte venisse completamente cancellato al mio passaggio. Da quando ho richiuso la tenda questa mattina ho incontrato branchi di springbok, giraffe, orici e struzzi. Non mi trovo in un Parco nazionale o in un’area protetta, ma nel Kaokoland occidentale, a nord della Namibia, uno dei territori più selvaggi del continente africano.
Raggiungerlo non è facile, le piste mettono a dura prova sia i mezzi 4×4 che le guide più esperte. Il GPS può risultare utile, ma quando si raggiunge questa regione nasce immediatamente il desiderio di perdersi tra le sue vastità sconfinate. Solo così si potrà andare incontro a qualcosa di sconosciuto che prima o poi apparirà magicamente e all’improvviso, come accade spesso in Africa.
La pista cambia direzione. Il fondo liscio e sabbioso diventa più pietroso e sconnesso. Una serie di piccole colline mi obbliga a rallentare il ritmo. La terra rossa si chiazza di erba giallo oro che contrasta con un cielo tanto nitido da non offrire sfumature. In lontananza, al lato opposto di un’altura, una pallida colonna di fumo bianco lascia intuire la presenza umana.
Qualche giorno fa avevo raggiunto un villaggio Himba, ma vedendo le donne scappare, evidentemente preoccupate per la mia presenza, avevo preferito non fermarmi.
In Namibia gli Himba si possono incontrare ovunque, anche nella capitale o nelle cittadine, ma la loro terra resta il Kaokoland. Sono ormai pochissime le famiglie nomadi che vivono ancora solo grazie alla pastorizia, spostandosi tra le vallate pietrose in cerca di spazi fertili.
Avanzo lentamente, pronto a cambiare direzione per non disturbare. Trovo tre capanne, una recinzione in tronchi, una decina di vacche, qualche bimbo e due donne che mi fissano con sguardo serio, quasi di sfida.
Mi fermo a una decina di metri dall’insediamento, scendo e cerco nel bagagliaio i doni che ho acquistato per un incontro che prima o poi sarebbe certamente avvenuto. Mi presento con qualche pacco di riso, della farina di mais e diversi accendini per i loro falò. Le due donne restano immobili. Consegno loro i pacchi che accettano mostrando apparente indifferenza, atteggiamento dovuto forse alla loro timidezza o al timore che venga chiesto loro qualcosa in cambio o più probabilmente perché non sono abituate a ricevere visite.
Non parlano inglese, non mi resta che comunicare col linguaggio universale del body language. Mostro la macchina fotografica per ricevere il loro consenso a fotografare. Anche in questo caso vengo completamente ignorato.
Per comprendere meglio la situazione e non risultare invadente mi allontano e scatto qualche foto del villaggio nel suo contesto. Poi mi avvicino al recinto dove una delle donne sta mungendo uno dei capi. Mi rivolge uno sguardo, poi si gira e riprende il suo lavoro.
I bambini si dimostrano più curiosi e intraprendenti. Col passare dei minuti si avvicinano sempre più. Gli scatto qualche foto che gli mostro immediatamente sul monitor. Ridono, si divertono, si rincorrono, si arrampicano sulla staccionata e sull’albero intorno al quale è stato costruito il villaggio.
La loro spavalda disinvoltura e totale mancanza di timore e del senso del pericolo farebbe pietrificare qualsiasi genitore nostrano. Da una delle capanne esce un bimbo piccolissimo che tentando i suoi primi passi si affaccia al mondo. Barcolla, appoggia una mano alla porta e si siede in terra, poi alza gli occhi e guarda la mamma. Si fa forza, si avvicina alle sue gambe e le abbraccia in cerca di sicurezza. Poso a terra la macchina fotografica e gli faccio una carezza che strappa un sorriso alla giovane madre.
Da qualche giorno le piste sterrate hanno lasciato il posto all’asfalto che mi sta riportando verso la capitale, dove mi aspetta la solita camera del solito lodge. Parcheggio il fuoristrada, scarico i bagagli e preparo il computer. Mi siedo alla scrivania e inizio a riordinare le foto, gli appunti e i report da inviare all’editore.
Dalla finestra, rimasta socchiusa, arrivano le voci di una coppia italiana appena rientrata dal tour del Paese. Anche loro stanno ripassando, con un po’ di malinconia, i ricordi dei giorni appena trascorsi. Parlano di elefanti, leoni, dune e di incontri con i bimbi Himba. All’improvviso lui cambia tono di voce e dice che potrebbero iniziare a pensare di avere un piccolo (o una piccola) Tarzan. Lei non risponde, ma dalle ombre vedo che gli prende una mano. Forse è vero che per qualcuno l’Africa ha il potere di cambiare il corso della vita.
Il momento dello scatto
Mentre giocavo con i bambini, mostrando loro le foto, vidi un bimbo piccolissimo uscire da una delle capanne. Si trovava a una decina di metri da me. Afferrai il corpo macchina sul quale avevo montato il teleobiettivo e regolai il diaframma a f 5,6, in modo da ottenere uno sfondo marcatamente sfocato. Verificai quindi che il tempo di scatto fosse sufficientemente rapido per scongiurare l’effetto mosso. Cercai un’inquadratura che non risultasse banale e che non si limitasse all’immagine del bimbo. Le gambe della madre (e le sue cavigliere argentate) avrebbero bilanciato la scena e trasmesso il senso di sicurezza cercato dal bimbo. La mancanza della figura intera della donna avrebbe inoltre trasmesso all’osservatore una sensazione di mistero, qualcosa da scoprire, come le incognite della vita per un bimbo che inizia a esplorare il mondo.
Dati tecnici
- Data: 13/09/2011
- Corpo macchina: Nikon D2x
- Obiettivo: Nikkor 80/200 f 2,8
- Lunghezza focale al momento dello scatto: 100 mm
- Apertura diaframma: F 5,6
- Tempo otturatore: 1/640 sec.
- Compensazione esposizione: 0
- Sensibilità sensore: ISO 200
- Flash: Nikon SB 800 (modalità TTL)
- Modo di ripresa: A (priorità di diaframmi)
VIAGGI FOTOGRAFICI di Davide Pianezze:
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