Anche oggi l’eroica Renault Clio acquistata due mesi fa a Santiago del Chile mi ha portato a destinazione. È totalmente ricoperta di fango, tranne le due mezze lune del parabrezza ripulite dai tergicristalli. Da lontano sembra ormai una zolla di terra a quattro ruote che vaga per la Patagonia.
Ogni volta che mi fermo per chiedere informazioni, fare rifornimento, cercare un meccanico, entrare in un ristorante, in un albero o in un negozio, mi sento rivolgere la stessa domanda: «Da dove arrivi con quella macchinina e dove vorresti andare con queste strade?».
Anche la mia risposta è sempre la stessa: «Arivo da Visviri (il paesino più settentrionale del Cile, al confine con Perù e Bolivia) e vado a Punta Arenas» (la città più a sud del mondo sulla terraferma).
La replica sembra esser stata stampata su un volantino e distribuita su tutto il territorio giusto in tempo per il mio arrivo: «È impossibile arrivare a Punta Arenas con quella macchinina, è meglio se torni indietro!».
Saranno stati i miei eloquenti gesti scaramantici di quei momenti o la mia ostinata caparbietà, ma a Punta Arenas in qualche modo ci sono arrivato.
Oggi per me è un giorno memorabile, ho raggiunto il Parco Nazionale Torres del Paine, ultima e più importante tappa fotografica del mio viaggio in Cile. È il Parco Nazionale più famoso di questo Paese, così lungo da attraversare quasi tutti gli ecosistemi del pianeta Terra.
L’unica certezza è il vento
Conoscendo l’imprevedibilità del tempo in queste regioni, dove l’unica certezza è il vento, il tour operator locale che supporta il mio progetto ha previsto per me un’intera settimana di permanenza in lodge all’interno del parco, in modo da aumentare le probabilità di successo fotografico.
Per qualsiasi fotografo le cime di Torres del Paine rappresentano una vera sfida proprio per via del meteo tanto capriccioso.
La camera del lodge si affaccia direttamente sul massiccio, ma al momento del mio arrivo riesco a vedere solo una laguna che, a poche centinaia di metri, si confonde con una densa coltre di nuvole cariche d’acqua.
La grande vetrata della camera amplifica il rumore della pioggia che cambia continuamente direzione in balia delle folli raffiche di vento. Al momento della sveglia la situazione non è cambiata e lo scroscio dell’acqua mi persuade a rigirarmi per tentare di prendere sonno.
La tarda mattinata si presenta plumbea ma non più piovosa, così parto per un sopralluogo in cerca di un punto panoramico che mi soddisfi, anche se il massiccio del Paine non sembra intenzionato a svelarsi.
Cammino per ore lungo sentieri fangosi che risalgono le colline del parco, tra praterie e faggi australi, in compagnia di guanachi, volpi e nandù (parenti stretti degli struzzi africani, meglio conosciuti come “Beep Beep” del cartone animato “Willy il Coyote”).
Scelto un punto panoramico, facendo affidamento soprattutto a una buona dose di fantasia in quanto le nubi nascondono inesorabilmente il panorama, rientro al lodge cronometrando il tempo di percorrenza.
In cammino due ore prima dell’alba
Ore 5:45, suona la sveglia, scendo dal letto e mi avvicino al finestrone dove, nonostante il buio più totale e gli occhi ancora appannati, riesco a constatare l’assenza delle precipitazioni.
Non ho molto tempo per preparami, raggiungere il punto panoramico individuato il giorno precedente, preparare l’attrezzatura e attendere l’alba prevista alle 7:42. Percorso qualche chilometro rivolgo lo sguardo verso l’alto e inizio a intravedere le striature del cielo che si illuminano.
Le colline circostanti nascondono la linea dell’orizzonte a est, negandomi la possibilità di individuare il punto preciso dove nascerà il sole e soprattutto non mi permettono di capire se la luce troverà un varco azzurro tra le nuvole.
Parcheggio l’auto e inizio a risalire la montagna fino a raggiungere il punto prestabilito. Ora il massiccio del Paine è interamente visibile. La nuova situazione mi suggerisce di cambiare la posizione scelta il giorno precedente per migliorare il punto di ripresa.
Corro per raggiungere una cima più alta rispetto a quella scelta, dove i riflessi del lago dovrebbero apparire più evidenti. Devo arrivare prima dell’alba.
Posizionata e impostata l’attrezzatura non posso fare altro che aspettare e sperare che i primi raggi del sole trovino un passaggio a est tra le nuvole per illuminare una delle montagne più belle al mondo.
L’intensificarsi della luce evidenzia sempre più la divisione di colore tra la roccia granitica (grigio chiaro) e la roccia metamorfica (quasi nera) che ne ricopre la sommità, caratteristica che rende queste montagne uniche al mondo.
All’improvviso le nuvole si colorano di fucsia, il cielo diventa turchese, la roccia sembra incendiarsi e la neve si rispecchia nella laguna Pehoè. Una magia che dura qualche secondo, giusto il tempo per i pochi scatti tra i quali ne verrà scelto uno per la copertina del libro dedicato al “Paese sottile”.
Poi il sole si nasconde dietro alle nuvole; mi siedo su una roccia, prendo fiato e ammiro la meraviglia che mi circonda.
Il momento dello scatto
Molti ritengono che il risultato di una buona fotografia paesaggistica dipenda nella maggior parte dei casi quasi esclusivamente dal fattore fortuna.
È innegabile che rispetto ad altri tipi di fotografia, come quella sportiva o la street photography, i tempi di reazione risultano mediamente meno concitati. Ma è anche vero che ad esempio durante un’alba con nuvole che si muovono rapidamente e raggi di sole che ridipingono continuamente lo scenario, è necessario rimanere estremamente concentrati.
L’esposizione dovrà variare costantemente in base alle zone di luce che si vogliono evidenziare e che aumentano e diminuiscono a loro piacimento.
È quindi importante saper improvvisare e non farsi cogliere di sorpresa. Una fase fondamentale (e spesso molto fisica), della fotografia paesaggistica, è la ricerca del punto di ripresa che può necessitare ore, a volte giorni, con più sopralluoghi per valutare differenti angolazioni e condizioni di luce.
Per quanto riguarda lo scatto in questione, dopo aver identificato il punto di ripresa posizionai saldamente il mio cavalletto a terra, assicurandolo con una cinghia a un ramo per evitare che venisse portato via dalle raffiche di vento. Raffiche che in Patagonia sono improvvise e possono superare abbondantemente i 100 chilometri all’ora.
Poi rimasi in attesa, sperando che all’altezza dell’orizzonte ci fosse almeno una striscia di cielo libero dalle nubi (dalla mia posizione non potevo vedere l’orizzonte a est).
Impostai il diaframma a f 18 (quindi chiuso) per dare maggior dettaglio, regolai la sensibilità del sensore al minimo (100 ISO) per ridurre il rumore elettronico e mi concentrai sui tempi di scatto che modificai costantemente in base ai dati ricevuti dall’esposimetro e alle variazioni delle aree illuminate del massiccio di fronte a me.
Dati tecnici
Data: 19 Settembre 2005
Corpo macchina: Nikon D2x
Obiettivo: Nikon 17/55 f2,8
Lunghezza focale al momento dello scatto: 17 mm.
Apertura diaframma: F17
Tempo otturatore: 1/20
Compensazione esposizione: 0
Sensibilità sensore: ISO 100
Modo di ripresa: M (manuale)
VIAGGI FOTOGRAFICI di Davide Pianezze: www.fattoreulisse.com
riproduzione consentita con link a originale e citazione fonte: rivistanatura.com