Continuano ad arrivare dai lettori pensieri scritti durante questo lungo isolamento dovuto al Coronavirus.
Ecco le riflessioni del lettore Giovanni Di Muoio, tra nostalgia di “normalità” e speranza di un futuro migliore.
…
“Come facciamo a vivere senza
le nostre vite? Come sapremo di
essere noi senza il nostro passato?”
John Steinbeck, Furore
Getteremo l’immondizia facendo finta di nulla. Come se la parola normale avesse riacquistato all’improvviso tutto il suo prezioso significato. Normale. Parola che abbiamo caparbiamente combattuto, osteggiato, respinto come si fa con il peggior nemico. Il solo pronunciarla ci faceva accapponare la pelle per noi che abbiamo vissuto nel culto dell’unicità, dell’essere speciali fino a scoprire alla fine dei giorni che in fondo essere normali è la più grande delle conquiste. Giocheremo a ricordare che percorrere i pochi metri che separavano la nostra dimora dai secchioni colorati in fondo al vicolo significava un’idea di libertà. E quella cosa lì assomigliava alla felicità. Getteremo l’immondizia e ci capiterà di allungare lo sguardo in quelle sgangherate fessure in cui depositare residui di vita e vedremo un mucchio di mascherine impilate che hanno nascosto tutto tranne le lacrime.
Non era carnevale e nemmeno una festa in maschera.
Era il rantolo che produce un corpo quando gli togli l’aria.
Era il rumore meccanico dei macchinari che copriva le videochiamate per dire ci vedremo, forse, in un’altra vita.
Era un lungo corteo di camion militari con il loro carico di morte da polverizzare e restituire al mittente sotto forma di contenitore ermetico.
Erano le 18 e non era l’ora del tè ma l’ora in cui ci guardavamo dubbiosi fino a scoprire che no, non eravamo in lista.
Era il tempo della distanza, dello stammi lontano altrimenti mi manca l’aria ma anche quando mi stavi vicino mi toglievi l’aria e allora il problema eravamo noi due insieme ma terribilmente soli che morivamo ogni giorno vivendo, goccia a goccia come un collirio al cianuro.
Erano le mani consumate dalla schiuma dei giorni, ruvide come un brutto carattere e respingenti come un rovo di spine.
Erano gli eroi silenziosi che assorbivano il dolore come spugne imbevute di rabbia. Una rabbia cieca che esplodeva nel silenzio di uno spogliatoio semi buio, con l’abito buono che dava il cambio alla muta verde, colore che una volta è stato quello della speranza ma che ha finito per fissarsi negli occhi di tanti vecchi apneisti colpevoli di aver respirato la nostra stessa aria malata.
Erano i pronostici disattesi, le scommesse mal riposte, i giorni lenti del calendario.
Erano i capelli da aggiustare prima di mettersi in posa davanti a un PC facendo finta che tutto ha un senso e che forse in fondo ci siamo meritati il castigo di esistere. O forse resistere.
Erano padri e madri socialmente inadatti indottrinati da figli asociali nel mondo capovolto delle possibilità.
Erano i segni sul volto, la fame di vita, la nebbia sugli occhiali che nascondeva l’orizzonte, le file pazienti e l’impazienza di ricominciare la corsa.
Era il tempo di quelli che avevano compreso il valore salvifico della lentezza mentre il resto del mondo correva sul posto sperando di arrivare primo sul traguardo di una vita che a raccontarla annoierebbe anche nostro Signore. O quello degli altri da invocare in comodato d’uso.
Era un attacco alla memoria e non lo abbiamo compreso pensando che il futuro non fosse altro che il combinato disposto di successo e potere.
Erano quelli accusati di meditare ignorando che la meditazione è un esercizio per praticare l’uguaglianza.
Era il culto della produzione, soprattutto di macerie, sulle quali nonostante tutto qualcuno è riuscito a passeggiare con la leggerezza dei buoni sentimenti fatti di comprensione e di ascolto.
Erano sofferenza e insofferenza che litigavano tra loro e nessuno che li separava nel rispetto della distanza.
Erano bambini invincibili, supereroi del presente e portatori sani di speranza.
Eravamo noi e magari lo siamo ancora.
Ma se ci scoprissimo uguali a prima sarebbe la nostra sconfitta ed è come se avessimo chiuso gli occhi anche noi per non vedere un mondo che muore soffocato dai suoi stessi errori.
E tra coloro che hanno scelto di correre come forsennati per recuperare il tesoro del tempo perduto e quelli che hanno preso consapevolmente la decisione di fermarsi a riflettere, c’è un popolo silenzioso di eroi senza nome che ha preferito danzare tra le rovine e per mezzo di quella danza la vita, quella vera, ha ripreso a pulsare nel cuore dei popoli.
Ciascuno di noi avrà ottenuto un buon risultato quando scoprirà da solo di essere diventato migliore.
Non il migliore.
Giovanni Di Muoio
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