Avete mai osservato il comportamento di una goccia d’acqua su una foglia di un albero, per esempio durante un acquazzone, e quello di una stessa goccia di pioggia su un foglio di plastica o sul vostro K-Way impermeabile? Il loro comportamento è diverso, anche la forma della goccia sulla superficie cambia: più piena e gonfia sulla foglia, dove scivola meglio, più piatta e “appiccicosa” sulla plastica” dove si muove più a fatica.
Al contrario della maggior parte delle situazioni del mondo organico, dove l’acqua può esprimere al meglio una delle sue tipiche proprietà, ovvero quella di “raccogliere e portar via” (e non ha caso è il solvente principe della natura, con cui si sciacqua e pulisce quasi tutto), con le plastiche derivate dagli idrocarburi (ovvero la stragrande maggioranza) avviene il contrario; ovvero è la plastica che “entra” nell’acqua, mentre difficilmente si fa sciogliere da essa. E infatti gran parte dei prodotti derivanti da polimeri di plastiche varie ci impiegano molte decine se non molte centinaia di anni per decomporsi (la famosa biodegradabilità dei materiali).
Petrolio vs acqua
Per capire l’origine di tutto ciò bisogna approfondire il materiale di origine della plastica, ovvero il petrolio ed esaminare il suo rapporto con il mondo dell’acqua. Proviamo a farlo con un approccio olistico, tentando una volta tanto di costruire nuovi nessi e senza frammentare ulteriormente la visione.
Cos’è il petrolio, se non acqua ctonia, ovvero derivata da vegetali decomposti e inglobati per milioni di anni nelle profondità della Terra a pressioni elevate, dove hanno completamente cambiato la loro natura, passata da ariosa, leggera, luminosa e solare (quale è quella di un albero o una pianta) a tenebrosa, mineralizzata, pesante e densa. Nel petrolio prevale l’essenza del fuoco e del calore e infatti ha sviluppato una componente oleosa, seppur minerale. E l’acqua, la cui principale proprietà, tra le circa 72 peculiari che la distinguono da tutte le altre sostanze del pianeta, è quella di “raccogliere e portar via” (non ha caso è il più importante solvente della natura), con il petrolio questo non riesce a farlo. Anzi è proprio l’idrocarburo che in un certo senso prevale su di essa. Per esempio come fa la plastica in mare, che non si fa sciogliere, rimane nell’ambiente per secoli, magari formando una sorta di poltiglia gelatinosa ancora più infida, in quanto entra nella catena alimentare con le ormai tristemente famose nanoplastiche.
Acqua e petrolio dunque non si parlano: se versate un litro di greggio sul mare esso copre con una sottile pellicola impermeabile circa 4000 mq., impedendo gli scambi ionici tra l’atmosfera e la superficie oceanica, nonchè con il suo fitoplancton, che tra l’altro è la principale fonte di ossigeno del Pianeta.
Portare il petrolio fuori dal suo ambiente originale, ovvero le viscere della Terra, tra l’altro in maniera repentina dopo che ha impiegato milioni di anni per sprofondare in essa, significa decontestualizzare una sostanza che poi, con tutte le lavorazioni e raffinazioni che subisce, perde purtroppo ogni elemento di naturalità divenendo così una sorta di veleno per l’ambiente di superficie e per l’acqua in particolare.
E allora non ci rimangono che i microrganismi ed in particolare quel ceppo scoperto di recente di batteri mangia plastica, in grado di degradare e digerire alcuni polimeri derivati dagli idrocarburi (in particolare il polietilene, che compone il famoso PET) per cercare di eliminare una sostanza che, inventata solo 60 anni fa, tra gli altri, anche da un italiano (Giulio Natta, Nobel per la Chimica) è ormai divenuta invasiva a livello globale.
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