La Pet Therapy è sempre vista di buon occhio soprattutto per il benessere evidente che porta ai fruitori, che spesso è attribuito alla spontaneità e alla simpatia dell’animale nelle relazioni. Ma è una terapia con solidissime basi teoriche.
La Pet Therapy si basa sull’approccio cognitivo zooantropoligico (CZ), una scienza che studia la relazione tra l’uomo e l’animale, di cui uno dei maggiori esponenti è Roberto Marchesini. Grazie a tale approccio è stato riconosciuto il valore della relazione tra pet, operatore e fruitore. L’animale viene visto non come un oggetto o uno strumento, ma come un soggetto, con le sue particolarità legate non solo alla specie e alla razza di appartenenza, ma anche alla sua individualità.
Non basta, quindi, l’istinto a fare di un animale un buon collega di Pet Therapy? No, assolutamente. L’approccio CZ vede il pet come dotato di mente e capace di ragionare e scegliere autonomamente il comportamento più adatto. Questa meravigliosa capacità è dettata sì dalle caratteristiche genetiche dell’animale, ma anche dalle sue esperienze di vita e dai suoi apprendimenti. Nei cani (ma non solo!) la relazione con il conduttore è fondamentale, e deve essere di estrema fiducia e conoscenza reciproche.
Umano e cane devono essere una base sicura l’uno per l’altro, da cui partire per affrontare avventure e compiti non sempre facili. Infatti, vengono esaminati da una commissione di esperti prima di essere certificati come coppia Pet-Partner, e lavoreranno sempre insieme nei progetti IAA (Interventi Assistiti con Animali, Pet Therapy). Io e Lars abbiamo superato non poche difficoltà per conoscerci e accettarci l’un l’altra, con frustrazioni e successi, delusioni e soddisfazioni, alti e bassi.
Non è facile accettare di avere un gigante che si lancia nel mare in tempesta e dover chiedere, nella struttura in cui si deve lavorare insieme, se hanno l’ascensore perché è terrorizzato dalle scale che non conosce. Ma è il mio gigante, e quindi, ascensore sia! Un saluto e un colpo di coda.
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