di Maddalena Jahoda
«Voi giovani di oggi neanche ve lo immaginate. Erano tempi terribili! Io avevo solo 4 anni, quando vidi il primo attacco, ma me lo ricordo come se fosse oggi. Non sapevi mai chi sarebbe arrivato alla fine della giornata. Le incursioni avvenivano quando meno te lo aspettavi, gli attacchi venivano dall’alto e la paura ti toglieva il fiato. Mia mamma cercava di apparire rassicurante, mi teneva vicino a sé e non mi perdeva mai d’occhio, ma io sapevo che anche lei aveva paura.
Le prime vittime erano state due mie cugine. La mamma mi aveva portato in un posto un po’ più lontano del solito, probabilmente perché non vedessi. E quando siamo tornate non c’erano più, io le avevo cercate dappertutto, nei luoghi che frequentavamo quando venivo affidata a loro perché la mamma era impegnata.
L’inverno era un po’ più tranquillo, soprattutto quando c’era vento. Mi piaceva quando soffiava forte e alzava le onde. Era divertente, tutti erano più rilassati, e gli attacchi erano più rari.
Poi venne quella terribile primavera, col caldo, il sole e la calma piatta. Quando arrivò l’incursione, la prima di quell’anno, ci prese alla sprovvista. Appena ce ne accorgemmo scendemmo più in basso possibile, come sempre, per ripararci. Restammo un’ora, io cercavo di resistere più che potevo, un’ora per me era tanto. Avevo bisogno di tornare in superficie a respirare. La mamma cercò di trattenermi, ma io non ce la facevo più.
L’aria sullo sfiatatoio fu un sollievo, finalmente un bel respiro. Il sangue mi tornava a circolare nel corpo, nelle pinne, nella coda, il cuore ricominciava a battere più velocemente. Lo sapevo che la mamma voleva che tornassi giù subito, ma non ce la facevo ancora, dovevo respirare ancora un po’.
Quando l’arpione trapassò l’acqua con la sua punta micidiale la mamma improvvisamente era vicino a me. Non è nulla, sembrava dire, ci sono qua io, non ti succederà niente. Tornai giù, mentre altri arpioni dalla punta affilata piovevano dalla superficie e l’acqua si tingeva improvvisamente di rosso. Dov’era la mia mamma? Perché non scendeva? Se ne stava in superficie, batteva la coda in mezzo a tutto quel rosso che oscurava quel poco sole che filtrava attraverso l’acqua.
Aveva lottato la mamma, per oltre due ore. Loro le avevano trafitto la coda, l’avevano legata con le cime, e non la lasciavano più scendere. Altre punte le trapassavano il corpo, anche il soffio divenne uno spruzzo denso e rosso. Quando smise di lottare, la portarono via.
Furono altre zie a occuparsi di me. Quando c’erano altri attacchi dei balenieri si disponevano tutte in cerchio, come i petali di un fiore, io e altri piccoli in mezzo. Molti, più piccoli ancora di me, morirono arpionati o rimasero senza mamma e senza zie che si occupassero di loro. I cuccioli che avevano ancora bisogno del latte morirono di fame.
Restammo in pochi, sempre meno. I balenieri venivano, aspettavano, e a volte se ne andavano senza aver ucciso nessuno.
Eravamo così pochi che, finalmente, un giorno la ‘guerra’ finì».
Una stagione di caccia al capodoglio non ancora finita del tutto
Possiamo solo immaginare come un capodoglio racconterebbe i tempi oscuri in cui i grandi cetacei venivano cacciati indiscriminatamente; quando – questo lo sappiamo per certo – le madri cercavano di proteggere i piccoli a costo della propria vita.
Ed è plausibile che un capodoglio adulto di oggi possa effettivamente ricordarsi i tempi degli arpioni; sono animali che vivono a lungo, e la caccia è continuata fino agli anni Ottanta per poi cessare, più che altro perché aveva spazzato via la maggior parte delle sue prede (in realtà non è finita completamente, perché Giappone, Islanda e Norvegia ancora la praticano, nonostante sia in vigore una moratoria internazionale).
Ho immaginato il racconto del capodoglio alle Azzorre, tradizionale territorio di caccia. Una mera antropomorfizzazione? Può darsi, ma se le balene potessero parlare, probabilmente non sarebbe così lontano dalla realtà.
Gli studi dimostrano che la vita sociale di certe specie è più ricca e complessa di quanto credessimo. Nei capodogli, nelle orche, probabilmente nei globicefali, i legami famigliari sono fortissimi; le femmine si occupano, a turno, anche dei figli delle altre (sono le “zie”). Anche nei maschi di certe specie, come nei tursiopi, si è scoperto che esistono amicizie che durano, probabilmente, per tutta la vita.
Tra noi umani è scontato che ogni individuo è unico e insostituibile; c’è la mamma fissata con la pulizia, la nonna che ha sempre da ridire, il fratellino piccolo che è una peste ma a cui tutti vogliono tanto bene.
Per i balenieri delle Azzorre un capodoglio era uguale a tutti gli altri (salvo che i più grossi erano i più redditizi), ma per i cetacei, come per noi, ogni membro della famiglia è un individuo con un ruolo ben preciso nel gruppo. Ucciderne uno aveva di sicuro un impatto devastante anche sui sopravvissuti.
“Balene salvateci! I cetacei visti da un’altra prospettiva”
di Maddalena Jahoda
Ugo Mursia Editore
Pagine 282, 18 Euro
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