Un territorio è resiliente quando è in grado di rispondere alle criticità ambientali, sociali ed economiche facendo ricorso alle sue risorse migliori, comprese quelle spesso nascoste o poco utilizzate, in modo da non snaturarsi.
La resilienza è ad esempio una delle qualità del bambù, che “si piega ma non si spezza”, per poi tornare diritto passata la tempesta.
In questo modo, in ambito territoriale, diventa possibile trasformare la realtà esistente attraverso la connessione tra i diversi soggetti che promuovono il cambiamento.
Oggi ci sono molte di queste “bolle di eccellenza” e reti pioniere d’innovazione all’interno dei sistemi locali. Diventa sempre più importante far sì che questi soggetti si conoscano, condividano uno scenario comune, definiscano le azioni per un progetto di vero cambiamento complessivo per arrivare infine a costruire un futuro in tempi difficili come quelli attuali. Iniziative che ormai sempre di più partono dal basso, rinunciando a contare sulle istituzioni se non su quelle locali, in un nuovo modo di fare politica forse figlio della disillusione ma anche sulla voglia di darsi da fare, di non accettare passivamente il declino.
Per questo è però necessario “fare rete”, costruire collegamenti e far conoscere realtà che sono assai più numerose di quel che si crede. Realtà che a volte però lavorano a pochi chilometri di distanza ma che non si conoscono tra loro.
Oggi una “rete di reti” di questo tipo in Italia non esiste. Per questo nasce questa rubrica, dedicata ovviamente al nostro specifico settore ambientale, e per questo è nato il network “L’Italia che cambia”, la cui azione è estesa anche al campo dell’economia, dell’educazione e del sociale.
“L’Italia che cambia” nasce da un’idea del giornalista Daniel Tarozzi che nel 2012, stufo di sentire solo brutte notizie di un Paese in decadenza, si mise a girare l’ltalia in camper alla ricerca di azioni virtuose e progetti concreti che testimoniassero l’esistenza di un Paese che “si dà da fare e ce la fa”. Il risultato è stato per molti versi sorprendente e ad oggi sono oltre 1500 il progetti e le realtà censite.
Come primo esempio di progetto di territorio resiliente citiamo quello di “Spiga e madia: dal seme al pane in 50 chilometri” in Brianza (MB), un’ iniziativa locale di media estensione, ma che può costituire un ottimo esempio esportabile altrove. Obiettivo del progetto era quello di ricostruire una filiera del pane a livello locale, riportando in primo piano la necessità di avere terreni agricoli, in particolare coltivati a frumento, in un’area molto antropizzata dove il suolo viene ormai consumato più per costruire capannoni che per coltivare. In pochi anni i promotori sono riusciti a costruire un’estesa rete di soggetti operativi che ha raggiunto i seguenti obiettivi: conversione di terreni da uso agricolo convenzionale a coltivazione biologica; produzione di granella di frumento tenero di buona panificabilità secondo metodologia biologica; molitura di granella in impianto posto nel raggio di 50 km; fornitura di farine per panificazione casalinga; fornitura di pane confezionato da panificio artigianale, posto in loco, con metodologia tradizionale (lievitazione con pasta madre).
Un progetto in apparenza semplice, ma che ha iniziato ad invertire un trend negativo con azioni molto concrete ed anche fortemente simboliche (legate al pane), creando una filiera corta di soggetti molto coinvolti che sicuramente non si fermeranno qui.
Invitiamo infine i lettori a segnalarci progetti di territori resilienti e di bolle di eccellenza che a nostra volta condivideremo con tutti voi.
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