Conosco Simon da molti anni. Nell’agosto del 2002 avevo gestito il suo camp a Maun mentre lui e sua moglie Joyce accompagnavano gruppi di turisti e fotografi europei e nordamericani nel Delta del’Okavango.
Lui arrivò da Londra poco più che ventenne e imparò il linguaggio della savana lavorando al fianco delle guide per i cacciatori d’oltre manica. Al tempo non esistevano i Parchi Nazionali, gli animali selvatici erano molto più numerosi di adesso e s’incontravano anche nel giardino di casa.
Abbiamo appuntamento alle 18 al ristorante dell’Okavango River Lodge, sulle sponde del Thamalakane River.
Arriviamo quasi contemporaneamente col sole che accarezza la linea dell’orizzonte al lato opposto del fiume. Ci sediamo a uno dei tavoloni in legno vicini al falò. Tra noi e il fiume un cartello circondato da alcuni piccoli bimbi sudafricani che giocano rincorrendosi a piedi nudi avvisa: “beware of crocrodiles”.
Domani partirò per la Moremi Game Reserva, poi il Khwai, il Savuti National Park e, infine, il Chobe National Park. Itinerario che ho percorso in diverse occasioni sia in solitaria, sia con Simon e altre guide. Chiedo a Simon notizie sulla situazione delle piste, spesso interrotte dai canali d’acqua che modificano costantemente il loro corso. Sulla cartina indica con una matita dove è possibile passare, dove si può guadare e dove la pista è stata ingoiata dall’acqua. Poi mi fornisce preziose informazioni sulle aree più ricche di fauna in questo periodo. Intanto il cameriere ci porta hamburger e birra che iniziamo a consumare sotto un cielo infuocato e tracciato da stormi di ibis.
Ogni volta che ci incontriamo gli chiedo di raccontarmi una delle tante avventure vissute a contatto con la fauna africana. Intanto altri amici e guide si uniscono al nostro tavolo. Rimane in silenzio per qualche istante, poi mi guarda e dice: «Quei ventidue leoni del Savuti facevano davvero cose incredibili». Inizi così il racconto di quello che secondo lui verrà ricordato alla storia come uno dei pochi branchi in tutta l’Africa, se non l’unico a memoria d’uomo, in grado di abbattere e divorare un elefante adulto ogni notte.
La loro forza non stava solo nel numero eccezionale di esemplari e nella loro potenza, ma anche in un’inconsueta formazione che, oltre un enorme maschio dominante, vedeva la presenza di altri due maschi adulti stranamente sottomessi al primo. Tutti insieme portavano a segno micidiali agguati, che avvenivano puntualmente poco dopo il tramonto. Le femmine attaccavano per prime i pachidermi intenti a consumare il consueto pasto notturno, successivamente i maschi completavano l’opera affondando le loro possenti zanne tra le vertebre del malcapitato che crollava a terra dopo aver combattuto fino allo stremo delle forze.
Una notte, però, i due maschi si ribellarono al capobranco. I tre si incontrarono sotto le stelle del Botswana, nei pressi di una piccola depressione del Savuti, proprio in prossimità del campeggio per i turisti. Quella notte Simon occupava una delle piazzole in compagnia dei suoi clienti. Si erano spenti da poco i fuochi quando dalla cima di un’altura, a est del campeggio, arrivò il ruggito di uno dei due sfidanti che annunciava l’inizio delle ostilità. Dopo qualche istante anche il suo compagno (probabilmente il fratello) espresse le sue intenzioni con altrettanto vigore. La risposta del maschio dominante, appostato sulla collina a ovest, non si fece attendere.
Sicuramente in quell’istante tutti gli occupanti del campeggio aprirono gli occhi, ma dalle tende non si sentì uscire alcun rumore. A detta dei presenti le vibrazioni del suo ruggito superarono abbondantemente quelle dei due fratelli, tanto da far tremare le brande. Lo scontro fu feroce e avvenne nel centro del campeggio. La luce dalla luna rendeva nette le ombre, facendo intravvedere dalle tende le sagome dei tre maschi che, avvolti da immensi polveroni, si rincorrevano azzannandosi e trascinandosi sulla sabbia.
Simon lo ricorda come uno scontro epico, non aveva mai assistito a tanta ferocia in un combattimento tra leoni. Inaspettatamente il maschio dominante cacciò via i due sfidanti e, non privo di profonde ferite, tornò al suo harem. Solo dopo diversi minuti che il campo di battaglia venne lasciato libero dai tre contendenti, dalle tende uscirono i primi timidi commenti dei turisti che con ogni probabilità non ripresero più sonno.
A distanza di qualche mese i due fratelli tentarono un secondo attacco al maschio dominante. Quello che fino a quel momento era stato il re incontrastato del Savuti venne ritrovato paralizzato a qualche decina di chilometri dal campeggio in attesa che le iene lo finissero. I due maschi tentarono di prendere il suo posto nell’harem, ma le femmine non li accettarono e si dispersero in diversi piccoli gruppi. Terminò così la saga di uno dei branchi di leoni più temuti d’Africa.
È trascorsa una settimana dal mio incontro con Simon. In questi giorni ho attraversato il Delta dell’Okavango e il Khwai, luoghi selvaggi e ricchi di fauna africana che portano la mente in altre dimensioni. Ieri sera sono arrivato nel Savuti al temine di un trasferimento impegnativo, dove non sono mancate buche, polvere e scossoni che hanno reso la vita difficile agli ammortizzatori del mio Land Cruiser.
Come ogni mattina sono stato svegliato dalla folata di vento che qualche minuto prima dell’alba passa su tutta la savana piegando le tende. Scendo dal tetto del mio fuoristrada, mangio rapidamente i miei cereali, impacchetto tutto e in pochi minuti mi ritrovo a seguire le impronte ancora fresche che alcune leonesse hanno lasciato sulla pista di sabbia. Dietro di me sopraggiunge un fuoristrada con a bordo diversi turisti: anche la loro guida ha individuato le stesse tracce che sto seguendo io. Poi le impronte cambiano direzione, entrano nella boscaglia, così decido di cedere la ricerca agli ospiti che mi seguono e a un altro fuoristrada che intanto ci ha raggiunti. Preferisco procedere da solo, così cambio direzione rivolgendo il cofano verso le pozze a nord ovest.
Tra i cespugli avvisto qualcosa di giallo. Mi fermo, arretro, mi avvicino. Possente e con una criniera che sembra essere appena uscita dal parrucchiere, appare un leone maschio enorme. È seduto immobile con lo sguardo rivolto verso il sole. Sul terreno trovo altre tracce fresche che si dirigono verso un secondo cespuglio. Sono troppo grandi per appartenere a una femmina. Mi sposto e a pochi metri di distanza vedo un secondo maschio della stessa stazza, anche lui intento a riscaldare la sua dura pellaccia al sole.
Corrispondono alla descrizione fatta da Simon dei due fratelli che sfidarono il maschio dominante del grande branco. Anche l’area di caccia è la stessa. Scatto qualche foto. Intorno a noi non ci sono altri turisti, solo il silenzio interrotto dai versi delle pavoncelle che beccheggiano vicino alle pozze. Poi sgancio l’attrezzatura fotografica e la poso sul sedile al mio lato, appoggio le braccia alla portiera, ripenso al racconto di Simon e resto immobile ad ammirare tanta maestosità.
Il momento dello scatto
Trovati i due leoni e costatato che non erano particolarmente attivi in quel momento, e che quindi difficilmente si sarebbero spostati, posizionai il fuoristrada con cura, preoccupandomi principalmente della direzione della luce ed evitando che nell’immagine potesse apparire l’ombra del mio mezzo, Quando il sole è basso e le ombre sono lunghe è necessario porre grande attenzione a dove si proietterà la nostra ombra se si vuole il sole alle spalle.
Per non infastidire i due esemplari, quindi per evitare che potessero scappare, mi mantenni a una distanza di circa 10 metri, perfetta inoltre per l’utilizzo del 500 f4. Abbassai il finestrino e agganciai l’obiettivo alla testa idraulica fissata un meccanismo agganciato al tetto che avevo realizzato un paio d’anni prima per sostenere le lunghe e pesanti focali.
Volevo dettaglio, quindi chiusi il diaframma a f 13, consapevole del fatto che lo sfondo sarebbe comunque risultato sfocato in quanto decisamente lontano rispetto alla prospettiva che avevo difronte. Per ottenere la massima qualità del sensore impostai la sensibilità a 200 ISO (il minimo per il mio corpo macchina).
Come conseguenza ottenni un tempo di scatto di 1/125 di secondo, che per un obiettivo lungo 500 mm, privo si sistema VR, può rappresentare un problema traducibile in effetto mosso. Per evitare errori cercai una posizione molto stabile del mio corpo, puntai i gomiti contro il telaio della porta e trattenni il fiato a ogni scatto, in modo da evitare vibrazione. Restai immobile a lungo in attesa che il mio soggetto offrisse il suo migliore sguardo.
Dati tecnici
- Data: 07 Luglio 2008
- Corpo macchina: Nikon D2x Obiettivo: Nikon 500 f4
- Lunghezza focale al momento dello scatto: 500 mm. Apertura diaframma: F 13 Tempo otturatore: 1/125
- Compensazione esposizione: – 0,7 Sensibilità sensore: ISO 200 Modo di ripresa: A (priorità di diaframmi)
VIAGGI FOTOGRAFICI di Davide Pianezze: