Solvitur ambulando, Camminando si risolve. La frase è attribuita a Diogene di Sinope (412 a.C.- 323 a.C) che con due semplici parole confutò il paradosso di Zenone, al più conosciuto come il paradosso di Achille e la tartaruga, col quale il filosofo, discepolo di Parmenide, mirava a negare il movimento.
Nella nostra cultura afflitta dalla fretta e dallo stress l’espressione Solvitur ambulando ha assunto un valore straordinario, che inneggia al cammino come a una specie di pratica magica, capace di risolvere, appunto, e di farci guardare di nuovo dentro noi stessi.
I filosofi della deambulazione indagano da tempo su come e perché la scimmia ancestrale si drizzò sulle zampe posteriori e cominciò a camminare. E lo fece per tanto tempo che il suo corpo si trasformò nel nostro corpo. L’unico dato finora certo è che camminare eretti è il primo segno distintivo di ciò che un giorno sarebbe diventato umano. Secondo alcuni studiosi diventare bipedi ha favorito addirittura l’espansione del nostro cervello. Altri invece vedono nella posizione eretta la struttura che ha determinato la nostra sessualità. Forse è proprio lì che va cercato il filo rosso capace di unire l’incedere sinuoso e conturbante di una donna contemporanea a quella colonna di carne e ossa, instabile ma già superba, che alcuni milioni di anni fa diventò eretta all’improvviso.
La specie umana ha avuto inizio dai piedi. Le orme di due bipedi alti meno di un metro e quaranta ne sono la prova. Oltre tre milioni e mezzo di anni fa, sfuggendo a un’eruzione lasciarono dietro di sé una fila di impronte fossilizzate dalla cenere. Piaccia o no, tutto è partito da lì. Da quei due ominidi, forse un maschio e una femmina, che nella Rift Valley si alzarono e cominciarono a camminare. Per la prima volta il loro corpo si proiettò in un equilibrio assoluto, partendo dal basso, dall’ultima dimenticata propaggine, la più importante. Cosa avranno pensato G1 e G2 mentre allungavano a terra la loro ombra e per la prima volta si muovevano con la forza delle sole gambe? Di sicuro non potevano sapere che il loro disperato tentativo di sottrarsi alla montagna di fuoco che si sprigionava dal cratere di Ngorongoro si sarebbe trasformato in una grande conquista.
Ho sempre amato camminare. E anche riflettere durante il cammino. E sull’importanza del cammino. Per molti anni, quand’ero più giovane, i miei versi preferiti sono stati quelli di Itaca, struggente poesia di Konstantinos Kavafis sul senso della vita, intesa come viaggio verso una meta che si raggiungerà solo dopo lunghe peregrinazioni:
Se per Itaca volgi il tuo viaggio,
fa voti che ti sia lunga la via,
e colma di vicende e conoscenze.
Itaca non è tanto una meta da raggiungere, ma piuttosto uno stimolo per intraprendere il viaggio, esplorare il mondo, crescere e ampliare il proprio patrimonio di conoscenze. Un concetto ripreso di recente dallo scrittore italiano Mauro Covacich, che riferendosi alla sua passione per la maratona ha spiegato quanto sia più importante il viaggio della meta: lo stare nella corsa è molto più importante che raggiungere l’arrivo.
Molti grandi pensatori hanno inneggiato ai piedi più che alla testa. Nel Crepuscolo degli idoli Nietzsche ha scritto: “Tutti i grandi pensieri sono concepiti mentre si cammina”. Henry David Thoreau, la cui raccolta di pensieri guarda caso s’intitola Camminare, ha detto: “Mi pare che nel momento in cui le mie gambe cominciano a muoversi, i miei pensieri cominciano a fluire”.
Ecco, forse l’espressione “cose fatte con i piedi” andrebbe rivisitata. Forse merita un po’ più di nobiltà.
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